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“Chi pensa solo a sé stesso e non dà la sua vita per il bene degli altri, non vive”. L’omelia dell’Abate Donato per la Solennità del Corpus Domini

CORPUS DOMINI
Anno B

Mc 14.12-16.22-26

Tutte e tre le letture bibliche proclamate contengono una parola-chiave che rias­sume il senso della solennità odierna. La parola è “alleanza”, un termine che, nel nostro caso, richiama il “legame di comunione” che Dio ha da sempre desiderato instaurare con l’umanità. Questa alleanza, che nell’Antico Testamento era stata sancita col sangue degli animali sacrificati, è ora ratificata una volta per sempre dal sangue versato da Gesù sulla croce.

In Gesù, Dio stipula un’alleanza nuova ed eterna con e per l’umanità, alleanza che passa attraverso il sacrificio del suo Figlio, la sua Passione e la sua morte di croce, come ci ha ben richiamato anche la seconda lettera (cf. Eb 9,11-15).

Il breve racconto dell’ultima cena – ripropostoci dal brano evangelico – anticipa simbolicamente il sacrificio di Gesù sulla croce, ponendo in risalto la logica che ha sempre guidato la sua esistenza e che raggiungerà il suo apice sul Calvario: il “dono di sé”. Sì, al cuore della nuova alleanza stipulata da Gesù con la sua morte di croce vi è il dono che egli fa di sé stesso!

Gesù si dona a noi totalmente, in un sublime e gratuito atto d’amore, dimostrandoci in tal modo che la legge suprema dell’esi­stenza e la garanzia della sua autenticità è il “dono di sé”. Come a dire che chi non dà la sua vita per il bene degli altri, ma pensa solo a sé stesso, non vive!

Col suo mistero pasquale di morte e risurrezione, Gesù non ci ha solamente salvati, ossia non ci ha solo riscattati e liberati da una situazione di morte spirituale e materiale, prospettandoci un futuro di libertà, ma ha anche voluto trasfor­mare la nostra vita, pur povera e fragile, nella “casa di Dio”. Del resto, Gesù ha assunto la nostra carne e la nostra umanità per portarle con Sé in Dio. E continua a farlo attraverso quel miracolo inestimabile che è l’Eucaristia. Nel pane e nel vino che in ogni Messa vengono consacrati sull’altare è, infatti, racchiuso il mistero di un Dio che continua a venirci incontro nella nostra corporeità perché desidera abitare in noi e con noi.

Sì, sotto le specie del pane e del vino, il Signore continua a “cercare casa” in ognuno di noi. E noi, pur riconoscendo di essere indegni di tale condiscendenza divina, ogni qualvolta ci comunichiamo del suo corpo e del suo sangue gli apriamo la porta della nostra vita e gli permettiamo di entrare e abitare in noi, desiderosi di essere trasformati anche noi in un dono di amore per i nostri fratelli e sorelle.

«Prendete! Questo è il mio corpo… questo è il mio sangue»

In quell’imperativo così nitido: “prendete!”, è racchiuso tutto l’impellente desiderio di Gesù di diventare una cosa sola con noi, lasciando che la sua vita divina scorra nella nostra – come il sangue nelle vene – per modellarla a sua immagine.

Sant’Agostino esprime questo mistero con una formula felice. Quando ci comunichiamo del cor­po e del sangue di Cristo – afferma – noi siamo trasfor­mati in quello che assumia­mo: «Voi siete quello che avete preso/assunto (Vos estis quod accepistis)». Anche se siamo noi ad assimilare materialmente l’ostia nella quale è realmente presente il corpo di Cristo, in realtà è Lui, il Cristo, ad assimilare noi a Sé. Sempre sant’Agostino mette sulla bocca di Gesù queste parole indirizzate a chi si comunica: «Non sarai tu che assimilerai me a te, ma sarò io che assimilerò te a me».

Infatti, a differenza del cibo materiale che attraverso il metabolismo del nostro corpo diventa un tutt’uno con chi lo ha ingerito, nella comunione eucaristica accade il contrario. È Gesù che ci assimila e ci trasforma in Sé. E lo fa perché noi possiamo replicare nella nostra vita di ogni giorno i suoi stessi sentimenti (cf. Fil 2,5), ossia il suo stile di vita, la stessa fedeltà a Dio che Egli ha dimostrato di avere nelle prove, il suo modo di a­mare, di solidarizzare ed entrare in comunione con gli altri, di gioire e di piangere con essi; il suo modo di parlare e di guardare, i suoi ge­sti, la sua capacità di ascolto, il suo cuore.

Per molti

Non va dimenticato, infatti, che, nel comunicarci con il suo corpo Gesù vuole che noi siamo attenti al corpo dei nostri fratelli e sorelle. Se prendere il corpo di Cristo significa entrare nel suo modo di essere, allora il nostro modo di stare nel mondo dovrà essere caratterizzato dalla capacità di riconoscere la presenza della carne di Cristo in ogni uomo e donna che incontriamo, soprattutto nei più deboli e indifesi: «Quello che avete fatto a uno di questi piccoli l’avete fatto a me» (cf. Mt 25,40), ci dirà un giorno Gesù.

Il corpo di Cristo non è solamente quello che ci è offerto nell’Eu­caristia, ma anche quello che incontriamo negli altri, nei poveri, nei piccoli, nei forestieri, negli ammalati, negli anziani, nei disabili, nelle persone sole, abbandonate, disperate.

Insomma, se da una parte siamo chiamati a essere “casa” di Gesù, suo tabernacolo, ossia a cibarci di Lui per custodirlo in noi e vivere della sua presenza e della sua amicizia, dall’altra siamo anche chiamati ad essere ostensorio, ossia a mostrarlo e a testimoniarlo agli altri attraverso la pratica delle buone opere, quelle che Gesù ci ha insegnato nel suo Vangelo.

Che il miracolo del Corpo e Sangue del Signore si compia ogni giorno nella nostra vita, carissimi fratelli e sorelle. Amen

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