Conclusione dell’Anno Santo Gerardiano a Monza, l’Abate Donato presiede la Celebrazione
L’Abate Donato ha presieduto ieri, giovedì 6 giugno 2024, la Celebrazione in onore di s.Gerardo dei Tintori, copatrono della città di Monza, a conclusione dell’Anno Santo Gerardiano .
La vita di s.Gerardo
Gerardo dei Tintori nacque a Monza intorno al 1135 da una famiglia benestante probabilmente legata alla tintura della lana. La sua casa paterna si trovava sulla riva sinistra del Lambro, vicino al ponte di San Gerardino, in una zona ricca di mulini.
Dopo la morte del padre, Gerardo decise di dedicare la sua vita ai poveri e, con i beni ereditati, fondò un ospedale che pare si trovasse nella sua stessa casa. L’ospedale, istituito prima del 1174, forniva assistenza a poveri, malati, pellegrini, donne sole e bambini abbandonati. In quell’anno, Gerardo stipulò un accordo con il Comune di Monza e il Capitolo del Duomo per definire lo status giuridico e amministrativo dell’ospedale, garantendone la continuità dopo la sua morte.
Il servizio dell’ospedale era svolto da conversi, laici che vivevano in comune come frati senza prendere i voti. Gerardo, uno di loro, ricopriva anche il ruolo di “ministro”, ossia direttore dell’ospedale, incarico che mantenne fino alla sua morte il 6 giugno 1207.
Il suo corpo fu inizialmente sepolto nel cimitero della chiesa di Sant’Ambrogio, poi ampliata e divenuta la parrocchia di San Gerardo al Corpo. Quaranta giorni dopo la sua morte, il corpo fu riesumato e collocato in un sarcofago presso l’altare della chiesa. Nel 1740, il sarcofago fu sostituito da un’urna di cristallo con decorazioni d’argento, successivamente rinnovata nel 1900. L’urna attuale, che espone lo scheletro di Gerardo, è situata nella cappella al fondo del transetto destro.
L’anno santo Gerardiano
Dal 6 giugno 2023 al 6 giugno 2024, quindi, la Comunità monzese ha vissuto un anno intenso di riflessioni, celebrazioni e rinnovamento spirituale, ricco di eventi religiosi, culturali e storici che hanno visto la città piena di pellegrini giunti per ricordare assieme due eventi importantissimi per la città:
–850° anniversario della “Conventio”: Nel 1174, Gerardo stipulò un atto notarile con la Basilica monzese e il Comune, trasformando l’ospedale in una istituzione civica, assicurandone la continuità nel tempo.
–400° anniversario della traslazione del Santo: Nel 1624, il corpo di San Gerardo fu traslato nella sua attuale collocazione nell’Urna conservata nella cappella a lui dedicata nella chiesa di San Gerardo.
L’omelia dell’Abate Donato
La Celebrazione svoltasi giovedì 6 giugno segnava, appunto, la chiusura di questo intenso Anno Santo e l’Abate Donato ha presieduto alle 10.30 la Celebrazione che sanciva la conclusione dell’Anno Gerardiano, su invito di Don Massimo Gaio- attuale parroco della parrocchia di San Gerardo al Corpo e ancor prima parroco di Asso, città di origine dell’Abate di san Paolo fuori le Mura.
Il testo integrale dell’omelia:
Conclusione dell’Anno Gerardiano
Prima lettura
6 giugno 2024
Dal libro del profeta Isaia (Is 58,6-11)
6Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? 7Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? 8Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. 9Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!». Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, 10se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. 11Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono.
Nella prima lettura, per due volte il profeta Isaia parla al popolo di Israele applicando ad esso il termine “luce”, lasciando intendere che si tratta di una realtà che gli appartiene, e che brilla in tutto il suo fulgore nella misura in cui esso mostra accoglienza e coinvolgimento benevolo nei confronti di qualsiasi situazione di indigenza, di povertà e di oppressione.
Queste parole sono oggi rivolte a noi che celebriamo san Gerardo, campione di accoglienza e di carità, che da una parte ci mostra come sia possibile essere luce in un mondo nel quale sembrano prevalere le tenebre dell’egoismo, della chiusura, dell’esclusione, e dall’altra ci sprona a rendere luminosa la nostra vita attraverso una sequela sempre più generosa e gioiosa di Gesù e del suo Vangelo.
Seconda lettura
Dalla prima lettera di San Giovanni apostolo (1Gv 3,14-18)
14Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. 15Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui.
16In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. 17Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio? 18Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
Nella seconda lettura, il termine “luce” ritorna sotto un altro nome, quello di “amore”. Non va dimenticato, infatti, che l’apostolo ed evangelista Giovanni, nel cap. 2 della sua 1ª lettera, aveva affermato: «10Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo. 11Ma chi odia suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1Gv 2,10-11). Amare significa essere nella luce, o meglio “essere luce”, un riflesso dell’amore di Dio, mentre odiare significa essere e camminare nelle tenebre. In Giovanni luce e amore sono dunque sinonimi.
Ora, nel brano che abbiamo ascoltato, tratto dal cap. 3 della sua 1ª lettera, l’apostolo Giovanni riprende il concetto dell’amore luminoso ponendolo direttamente in rapporto con la vita, e lo fa con parole eloquenti e severe: «Chiunque odia il proprio fratello è omicida» (v. 15) perché «chi non ama rimane nella morte» (v. 14b). In altre parole, chi non ama l’altro è come se lo uccidesse, e anche colui che prova sentimenti di odio è spiritualmente morto, perché solo chi ama vive! Abbiamo quindi la triade: luce, amore, vita. Viviamo se spargiamo attorno a noi la luce dell’amore di Dio!
Detto questo, l’apostolo Giovanni ci porta al cuore del mistero che alimenta la nostra fede: l’amore immenso che Dio ha riversato su di noi nella persona del suo Figlio Gesù, e che diventa il modello dell’amore che anche noi siamo chiamati a testimoniare agli altri: «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (v. 16). La garanzia che stiamo dalla parte di Dio, che viviamo del suo amore e brilliamo di quella luce che ha nell’amore la sua scaturigine, è l’apertura del nostro cuore e della nostra vita alle necessità altrui.
VANGELO
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «31Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 37Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. 40E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-40).
«Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»
L’affresco grandioso, chiamato “giudizio finale”, presentatoci dalla pagina evangelica, ritorna – per dirla con le parole della seconda lettura – sulla necessità di amare non «a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità».
Ciò che soprattutto ci affascina e ci consola in questa pagina evangelica è il fatto che quando Gesù, Re dell’universo, verrà nella gloria alla fine dei tempi, l’argomento su cui si concentrerà il suo giudizio divino sarà costituito dalle cose buone che avremo compiuto durante la nostra vita.
Il Signore, cioè, farà pesare sulla bilancia il bene che avremo fatto, la misericordia che avremo mostrato, soprattutto a chi è nel bisogno, e la consolazione che saremo stati capaci di offrire, non importa se ciò è avvenuto attraverso il dono di un po’ di pane o di acqua a chi era affamato e assetato o attraverso una carezza data a chi è solo e triste. A chi avrà agito così, il Signore dirà: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo» (cf. Il Pantokrator del mosaico realizzato nel catino absidale della Basilica di San Paolo fuori le Mura).
Questo è uno degli aspetti più luminosi e incoraggianti della nostra fede, il sapere, cioè, che il metro con cui il Signore ci misurerà non sarà tanto la costatazione dei peccati commessi a motivo della nostra fragilità e debolezza, bensì il bene che avremo compiuto, anche attraverso i piccoli gesti della quotidianità.
È vero che, nello specifico, l’evangelista Matteo presenta sei opere: Avevo fame, avevo sete, ero straniero, ero nudo, ero malato, ero in carcere… Esse, tuttavia, non sono esaustive della lista delle opere di misericordia materiali e spirituali, la quale può essere allungata a piacimento a seconda delle diverse necessità che affliggono i nostri fratelli e sorelle. Le opere elencate da Matteo sono esemplificative delle tante ferite dell’umanità di cui il Signore ci chiede di preoccuparci e occuparci, perché nell’andare incontro a chi è nel bisogno noi andiamo incontro a Cristo stesso: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»
Identificandosi con chiunque si trovi nel bisogno Gesù pronuncia una stupefacente dichiarazione d’amore per tutti gli esseri umani che si trovano nell’indigenza, nella povertà, nella degradazione, nell’emarginazione. Costoro rappresentano, più degli altri, la carne di Cristo e finché ci sarà anche un solo uomo sofferente sulla faccia della terra, Gesù continuerà a soffrire in lui e con lui!
Qui, sorelle e fratelli carissimi, tocchiamo con mano l’esigente bellezza del Vangelo. Nell’indicarci che l’ingresso nel suo Regno è legato alla nostra capacità di amare – poiché questa è l’unica cosa che di noi rimarrà per l’eternità – Gesù ci esorta a uscire da noi stessi per andare verso gli altri e prenderci cura dei più bisognosi.
Gesù non ci chiede di compiere miracoli, ma di vivere quotidianamente il miracolo della fede che ci consente di farci prossimi di chi soffre, di chi è povero, di chi è abbandonato e vive nella solitudine; ci chiede, ad esempio, di custodire con silenzioso eroismo un figlio diversamente abile, di aver cura senza clamore del coniuge in crisi o di aprire il nostro cuore a chi è sfiduciato e deluso dalla vita. Insomma, Gesù ci chiede di far nostro e testimoniare nei solchi della quotidianità lo stesso sguardo compassionevole che Egli ha sugli uomini.
Nel brano evangelico proclamato non è stata inclusa la parte finale, quella nella quale il giudizio divino prende sul serio anche l’uso improprio della libertà che porta al fallimento della vita. La falliscono coloro che non fanno niente di bene. Magari non sono cattivi o violenti, non aggiungono male a male, e tuttavia rimangono indifferenti, non muovono un dito per andare incontro a chi ha bisogno.
Non basta, infatti, credersi buoni interiormente perché non si fa nulla di male. Il contrario dell’amore non è solo l’odio, ma anche l’indifferenza, che riduce al nulla il fratello: non lo si vede e dunque non esiste! Sì, anche l’indifferenza può uccidere! Guardiamoci, dunque – come ci esorta papa Francesco – dal farci prendere dagli ingranaggi della «globalizzazione dell’indifferenza». Stare a guardare è già farsi complici del male, della corruzione, del peccato che ci circonda e che intride di sé il cammino dell’umanità. Il male più grande è aver smarrito lo sguardo, l’attenzione, il cuore di un Dio che ama!
San Gerardo, che Monza venera come uno dei suoi patroni e chiama “padre della patria”, non è stato alla finestra a guardare, ma ha preso sul serio la Parola del Signore. Egli è un santo della carità a tutto tondo, un santo che si è distinto per la dedizione e la cura umile e laboriosa degli ammalati, per i quali aveva fondato, nel 1174, un ospizio, ossia un luogo in cui poterli accogliere e curare, una sorta di ospedale. Al tempo in cui questi ospizi sorgevano per opera dei monaci, Gerardo ne fondò uno investendo in esso tutta la fortuna che aveva ereditato dal padre, e ponendo l’opera sotto il controllo del Comune e dei canonici della Basilica di San Giovanni Battista. Come è noto, quest’anno ricorre, infatti, l’850° anniversario del contratto che Gerardo aveva stipulato con essi. Lasciato ad altri – come diremmo noi oggi – il controllo amministrativo e gestionale dell’opera, Gerardo aveva riservato per sé il lavoro sul terreno, i compiti più umili e faticosi: portare a spalle i malati raccolti in giro, lavarli, nutrirli, servirli come se le loro membra fossero le membra dello stesso Gesù!
Proprio perché Gerardo non era né monaco né prete, egli si staglia davvero dinanzi a noi come il simbolo di una “santità popolare” – come si esprimeva il Card. Carlo M. Martini –, una santità, cioè, accessibile a tutti. Papa Francesco lo additerebbe come un esempio della “santità della porta accanto”, quella che si esprime attraverso un amore fattivo, attraverso la vita buona del Vangelo che rende credibile chi lo professa, perché fatta non solo di parole ma sostanziata dalle opere.
Al di là dei prodigi che gli vengono attribuiti – come quello riguardante l’arresto della piena del Lambro che rischiava di inondare l’ospedale o come quello delle ciliegie che Gerardo aveva promesso ai custodi della basilica (era il mese di dicembre!) se lo avessero lasciato pregare in essa per tutta la notte – al di là, dunque, di questi e altri miracoli, san Gerardo rimane il simbolo di un santo del popolo e vicino al popolo, capace di coniugare spiritualità e azione, o altrimenti detto: capace di tradurre l’amore per Dio in amore per i fratelli, che è ciò che è chiesto a ciascun battezzato.
Termino, infine, col ricordare a tutti noi che sarebbe impossibile essere un riflesso del cuore amante di Dio senza una diuturna comunione con Lui nella preghiera, nella frequenza dei sacramenti e nella familiarità con la sua Parola, dalla quale attingere luce e forza per il nostro cammino di fede e di testimonianza della carità.
Se il nostro fare non scaturisce dalla nostra unione interiore con Dio, coltivata quotidianamente, esso scadrebbe ben presto in puro filantropismo e assistenzialismo. La notte che san Gerardo ha passato in preghiera nella basilica ci testimonia come l’orizzontalità del nostro operare abbia bisogno di essere supportata e continuamente illuminata e corroborata dalla verticalità della costante ricerca di Dio e della comunione vivificante con Lui. San Gerardo interceda per ciascuno di noi! E così sia.
FOTO fonte www.ilcittadinomb.it