Solennità dei SS.Pietro e Paolo, l’omelia dell’Abate Donato
29 giugno 2025
Sulla via Ostiense, non molto distante dalla Basilica di San Paolo flM, in occasione del Giubileo del 1925 (esattamente cent’anni fa) il Comune di Roma fece collocare una lapide marmorea sulla facciata di un edificio eretto sul luogo dove, in passato, sorgeva una cappella dedicata al SS.mo Crocifisso, cappella che fu demolita agli albori del XX secolo in vista dell’allargamento della via Ostiense.
Questa cappella – recita il testo inciso sulla lapide – «segnava il luogo dove secondo una pia tradizione i Principi degli Apostoli Pietro e Paolo vennero separati nell’avvio al glorioso martirio». Commemorava, cioè, la cosiddetta concordia apostolorum – la concordia degli apostoli –, un’immagine che ricorre spesso nella storia dell’arte e che raffigura i due apostoli mentre si abbracciano alle porte di Roma, poco prima di separarsi per andare incontro ciascuno al proprio martirio.
Pietro e Paolo: diversi e uniti in Cristo
Nonostante che fossero due persone profondamente diverse, Pietro e Paolo sono sempre ricordati insieme. Pietro – come è noto – aveva un temperamento emotivo e impulsivo, pieno di passione e di slanci, ma anche incline ai cedimenti. Se da una parte, infatti, è il primo a riconoscere che Gesù è il Cristo, il Messia (cf. Mt 11,3), dall’altra, nel momento della prova suprema del Maestro, arriva a rinnegarlo tre volte (cf. Mt 26,74; Lc 22,55-60). Tuttavia è lui che Gesù sceglie come “primo” tra i dodici apostoli, cambiandogli il nome da Simone a Pietro e affidandogli l’incarico di confermare i fratelli nella fede e di pascere il gregge della sua Chiesa (cf. Mt 16,13-19; Lc 22,31-32; Gv 21,15-19).
Paolo, dall’altra, aveva un temperamento rigoroso e risoluto e – come si direbbe oggi – era tutto d’un pezzo. Difatti, la medesima determinazione con cui aveva perseguitato e mandato a morte i seguaci di Gesù, quando contrastava la Chiesa nascente, l’accompagnerà anche una volta che avrà abbracciato la fede cristiana e si sarà consacrato alla missione evangelizzatrice, distinguendosi per lo spirito indomito che nessun ostacolo e avversità riusciranno a scalfire. Paolo, come sappiamo, era stato conquistato da Gesù sulla via di Damasco (cf. At 9,1-19 e parr.) e, una volta convertito alla causa del Vangelo, aveva consacrato tutto sé stesso a servizio dell’intelligenza della fede nel mistero di Cristo e dell’annuncio del suo Vangelo.
La diversità tra i due apostoli Pietro e Paolo è stata sottolineata lungo i secoli anche dai tratti somatici con cui venivano normalmente rappresentati: Pietro con folti capelli ricciuti, la fronte bassa, un impianto massiccio del volto e una barba fluente; Paolo con il volto simile ai ritratti dei filosofi greci: fronte alta accentuata dalla stempiatura e barba a punta, così come è rappresentato anche nella statua lignea policroma del sec. XIV a tutt’oggi venerata in questa Basilica nella Cappella del Crocifisso.
Il fatto, dunque, che, al di là delle differenze e delle divergenze che li hanno caratterizzati, la tradizione cristiana abbia sempre associato i due apostoli – come anche la festa odierna dimostra – ci dice l’importanza della diversità e della complementarità messe al servizio dell’unica fede e dell’unico Vangelo di Cristo Gesù.
Circa il loro legame come fratelli nella fede, Benedetto XVI ebbe a dire che Pietro e Paolo «rappresentano tutto il Vangelo di Cristo», perché, «benché assai differenti umanamente l’uno dall’altro e malgrado nel loro rapporto non siano mancati conflitti, hanno realizzato un modo nuovo di essere fratelli, vissuto secondo il Vangelo, un modo autentico reso possibile proprio dalla grazia del Vangelo di Cristo operante in loro. Solo la sequela di Gesù conduce alla nuova fraternità» (Omelia, 29 giugno 2012). In questo senso essi continuano ad esserci di esempio e di stimolo, sia nelle relazioni con coloro che condividono la nostra stessa fede sia nei rapporti con quanti vivono al di fuori della compagine ecclesiale. C’è una fraternità che è molto di più che la semplice convergenza di pensiero o una questione di affinità, e che ha la sua radice luminosa nell’avere Gesù come punto di riferimento.
Al cuore della vita e della missione di Pietro e Paolo, e al centro del loro rapporto, vi era dunque la persona di Gesù e il suo Vangelo, come testimoniano anche i cartigli che Pietro e Paolo tengono rispettivamente nella mano nella rappresentazione musiva del catino absidale di questa Basilica. Nel cartiglio di Pietro leggiamo le parole della cosiddetta “professione di Cesarea”: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». È la risposta che Pietro, a nome degli apostoli, dà a Gesù in risposta alla domanda che, inizialmente, egli aveva rivolto a loro in maniera generica, ma che poi aveva finito col chiamarli in causa direttamente: «Voi, chi dite che io sia?». La risposta di Pietro racchiude il senso autentico del rapporto che il Signore desidera stabilire con noi, e la motivazione di fondo della nostra testimonianza cristiana, che nasce appunto dall’incontro trasformante con Lui, con Gesù vivo, incontro che infonde una nuova luce alla nostra esistenza. Come ebbe a dire papa Francesco in una sua omelia: «Il testimone, in fondo, annuncia solo questo: che Gesù è vivo ed è il segreto della vita. (…) La testimonianza nasce dall’incontro con Gesù vivo» (papa Francesco, Omelia del 29 giugno 2019).
Anche al centro della vita di Paolo vi era il Cristo, il Signore dell’universo al quale dobbiamo obbedienza. Nel cartiglio che tiene in mano troviamo, infatti, una citazione del famoso Inno cristologico della sua Lettera ai Filippesi: «Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra» (Fil 2,10). Paolo, che, sulla via di Damasco, era stato afferrato da Cristo, sarà per sempre vincolato a Lui dalla forza del suo amore, e la ragione della sua vita e della sua missione non sarà altro che Lui, Gesù, tanto da arrivare a dire di sé: «Per me il vivere è Cristo»(Fil 1,21), e: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Tutto ciò che non portava alla sublimità della conoscenza di Cristo e alla vita nuova in Lui era considerato da Paolo come spazzatura (cf. Fil 3,7-8).
Pietro e Paolo: testimoni di Dio che ci ama come siamo
Oltre alla testimonianza della fraternità che si può e si deve costruire anche quando si sperimentano differenze di temperamento e diversità di vedute che talora generano frizioni o conflitti, Pietro e Paolo ci insegnano che a grazia del Signore agisce anche attraverso i limiti e le debolezze della nostra condizione umana. La vita di fede, infatti, non consiste nel ritenerci degni, meritevoli o perfetti, perché ci sarà sempre qualcosa di mancante nella nostra sequela di Gesù. Quel che importa è aprirgli le porte del nostro cuore e affidarci alla potenza salvifica della sua misericordia, lasciando che essa risani quelle zone d’ombra che ci sono in noi e ci rigeneri continuamente a vita nuova, perché – come scrive san Paolo – «se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17). Gesù non cerca la nostra bravura, ma un cuore umile e sincero che desideri abbandonarsi a Lui e fidarsi di Lui, come Pietro e Paolo appunto.
Questi due grandi apostoli che – come recita il Prefazio della Messa in loro onore – «in modi diversi hanno radunato l’unica famiglia di Cristo», e che a Roma hanno sigillato la loro testimonianza a Cristo con il martirio, intercedano per noi. Il loro esempio e il loro grande amore per Gesù ispiri la nostra sequela di Lui, la mantenga sotto la luce del suo Vangelo e la renda sempre più gioiosa e generosa, per il bene nostro, della Chiesa e del mondo intero, che ha così tanto bisogno di vedere incarnate la giustizia, la verità, la concordia fraterna, la pace, in una parola: l’Amore che proviene da Dio stesso e che il suo Spirito riversa continuamente nei nostri cuori (cf. Rom 5,5).







































































