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Omelia Venerdì Santo

In questo momento così grave e solenne nel quale celebriamo la Passione e Morte di Gesù nostro Salvatore, siamo invitati, sull’onda del racconto evangelico, a contemplare con lo sguardo della fede gli istanti supremi della sua vita.

Diciamo subito che nel momento stesso in cui Gesù ha consegnato lo spirito (cf. Gv 19,30) – momento che, per l’evangelista Giovanni, coincide con la sua glorificazione – al battito del suo cuore di carne si è sostituito quello del cuore di Dio suo Padre. Così, se dal punto di vista umano la vicenda terrena di Gesù sembrava essersi conclusa con un fallimento, dal punto di vista di Dio, invece, tutto riprendeva vita in maniera inedita.

La morte di croce, abbracciata volontariamente da Gesù per amore è divenuta per tutti noi veicolo di vita nuova. È il paradosso racchiuso nella sua morte di croce. Ed è anche la ragione per cui noi cristiani adoriamo la croce di Gesù e la definiamo gloriosa. Gloriosa perché l’esito del suo sacrificio sul Calvario – ossia la vittoria dell’Amore di Dio sul male e sulla morte – troverà il suo suggello con la sua Risurrezione nella notte di Pasqua.

Ma trasportiamoci per un momento accanto a Maria, la madre di Gesù, e alle altre donne che, assieme a Giovanni, l’apostolo che Gesù amava, stavano con lei ai piedi della croce (cf. Gv 19,25). Con loro fissiamo lo sguardo su Gesù morente e accogliamo e facciamo nostre le ultime parole da Lui pronunciate, così come ce le ha riportate l’evangelista Giovanni: «“È compiuto!” E, chinato il capo consegnò lo spirito» (Gv 19,30). Sulla soglia della morte Gesù proferisce una semplice, serena costatazione nella quale è racchiusa la consapevolezza della sua immolazione: «È compiuto!». In altre parole, Egli è consapevole che, solo abbracciando la morte di croce fino in fondo, avrebbe portato a termine la missione affi datagli dal Padre, quella di rivelare il suo disegno di amore e di salvezza per l’umanità intera.

Diversamente da Giovanni, gli altri tre evangelisti, Matteo, Marco e Luca, riferiscono che subito prima di morire Gesù «gridò a gran voce» (Mt 27,50). Marco descrive il contenuto di questo grido con le parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34) – parole che nel vangelo di Matteo Gesù aveva già pronunciato in precedenza (cf. Mt 27,46) – mentre secondo Luca Gesù gridò: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).

Se per l’evangelista Luca le ultime parole di Gesù esprimono la serena fiducia con cui riconsegna al Padre lo spirito – alludendo con esso allo Spirito Santo che l’aveva sempre accompagnato e sostenuto nella sua vita terrena – per Marco e Matteo l’accento è posto sulla drammaticità della morte di Gesù, sperimentata come negazione estrema della vita. E tuttavia, anche in quelle parole, che sembrano dire l’abbandono di Dio, c’è tutta la fiducia del Figlio verso il Padre suo, fiducia con la quale esprime anche tutta la solidarietà con cui ha voluto condividere fino alla fine il destino degli esseri umani, solidarietà che non si è manifestata solo nel sottomettersi alla morte fisica – morte che avrebbe poi sconfitto dal di dentro con la sua risurrezione – ma che si è espressa anche nel contrastare tutto ciò che è apportatrice di morte sul piano morale e spirituale.

Pensiamo alle tante ingiustizie, alle oppressioni, alle devastazioni, ai genocidi, alle guerre, note e sconosciute, e alle violenze di ogni genere, perpetrate soprattutto a danno dei più deboli, che – oggi come allora – imperversano sulla faccia della terra. Il grido di Gesù raccoglie e fa sue tutte le grida che salgono dall’umanità, incluse quelle dell’angoscia e della disperazione che sembrano pervadere il nostro tempo e attanagliare in una morsa letale il cuore di molti.

pittore norvegese del ‘900 – ha dipinto in un suo famoso quadro intitolato: “L’urlo” o “Il grido”. L’artista vi ha raffi gurato un uomo dal volto deforme, la cui bocca si apre in uno spasmo innaturale. È un urlo che esprime il vuoto devastante provocato dall’angoscia e dalla disperazione, un urlo nel quale non sembra esserci spazio per alcuna forma di conforto, e men che meno per una possibile redenzione. È un urlo spesso solo interiore che, per l’appunto, descrive bene l’animo dell’uomo contemporaneo, intriso di passioni tristi e corroso dal proprio, esasperato individualismo, dell’uomo che crede di potersi affrancare da Dio e che finisce, invece, col ritrovarsi prigioniero della propria solitudine.

Non così il grido di Gesù sulla croce. In esso c’è sì tutta la crudezza della derelizione e l’atrocità del dolore, ma vi è anche tutta l’incontaminata e illimitata fiducia che Gesù ripone nel Padre suo. Gesù sa di non essere solo. Nel dire: «Tutto è compiuto!», è come se Gesù avesse detto: «Ho dato tutto me stesso e ho preso su di me il peso indicibile del peccato del mondo affinché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Ora ritorno al Padre, felice di avere obbedito alla sua volontà e di essermi immolato per la salvezza del mondo».

Nel grido di Gesù che si consegna alla morte sul Calvario, avvertiamo dunque distintamente l’infinito amore con cui si è fatto e continua a farsi solidale con le nostre miserie, le nostre povertà e le nostre sofferenze. Sì, contemplando il Crocifisso, noi abbiamo la certezza che dalla sua morte promana una luce nuova, la luce dell’amore, una luce che può rischiarare anche l’esperienza più buia, dolorosa, drammatica della nostra esistenza.

Niente e nessuno, infatti, può smorzare il grido dell’amore, tanto più se questo amore ha una radice divina. Se è stato possibile – perché Gesù stesso lo ha voluto – spegnere il suo cuore e il suo corpo, non è però stato possibile far morire l’amore di Dio che pulsava nelle sue vene e che ha trascinato con sé ogni particella del suo essere in disfacimento spalancandolo alla gloria sfolgorante della Risurrezione.

Sì, in Gesù tutto giunge a compimento in virtù della forza luminosa e travolgente dell’Amore, e grazie alla sua Passione e Morte anche tutti noi, possiamo accedere alla sovrabbondante grazia dell’Amore che tutto può. E così sia.

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