Nuova oblazione secolare per l’Abbazia di San Paolo fuori le mura
Dopo la professione temporanea di Dom Roberto Richichi il 24 giugno scorso, un altro momento importante oggi per la Comunità monastica dell’Abbazia di San Paolo fuori le mura. La famiglia degli Oblati diventa più numerosa con l’oblazione di Massimiliano Perugia.
Gli oblati secolari
Come ha affermato l’Abate Donato nella sua omelia di oggi: “L’Oblazione secolare benedettina non è altro che una più profonda presa di coscienza delle esigenze del Battesimo, che si traduce in un impegno quotidiano a vivere e testimoniare il Vangelo di Gesù nella propria vita, sotto l’ispirazione della Regola benedettina che del Vangelo è un valido compendio.”
Gli oblati secolari sono uomini o donne che seguono gli insegnamenti spirituali della Regola benedettina nell’ambiente in cui vivono.
Chi chiede di diventare oblato o oblata, dopo un primo periodo di discernimento, è ammesso a seguire un cammino formativo vivendo la spiritualità benedettina in varie tappe e, laddove possibile, a condividere la preghiera comunitaria – la liturgia delle ore. Agli oblati è chiesto di approfondire la conoscenza della spiritualità benedettina con incontri personali e comunitari, legandosi così in fraternità con gli altri oblati.
Il cammino formativo di preparazione culmina, quindi, nel rito di oblazione solitamente inserito in una Celebrazione eucaristica
Ed è proprio quanto accaduto oggi a San Paolo fuori le mura quando, durante la Celebrazione Eucaristica presieduta dal Rev.mo Abate Donato, si è svolto il rito di oblazione di Massimiliano Perugia.
L’Omelia dell’Abate Donato nel suo testo integrale:
OBLAZIONE SECOLARE DI MASSIMILIANO PERUGIA
XIV Domenica TO – A – 9 luglio 2023 Mt 11,25-30
Possiamo suddividere il brano evangelico ascoltato in tre strofe. Nella prima Gesù innalza un rendimento di lode e di grazie al Padre perché ha svelato ai piccoli, ossia agli umili e ai poveri il progetto salvifico che si è concretizzato nella sua persona. E Gesù gioisce perché egli si identifica con gli umili e i poveri.
Nella seconda strofa Gesù parla della conoscenza reciproca, intima e profonda, che intercorre tra lui e il Padre. Di questa intimità – continua Gesù – è reso partecipe anche a chi crede in lui.
La terza strofa è un appello a tutti i poveri e i deboli perché si mettano alla sequela di Gesù nel quale solo c’è salvezza. Difatti, in quell’imperativo: «Venite a me» appare subito ciò che differenzia l’insegnamento di Gesù da quello degli antichi saggi e dei rabbini. I primi, infatti, invitavano a seguire la sapienza che veniva loro proposta, i secondi esortavano ad aderire alla legge mosaica. Gesù, invece, dal canto suo non invita a seguire una forma di sapienza, per quanto attraente, o un insieme di norme, ma nientemeno che la sua stessa persona: “Venite a me!” La salvezza si trova nell’adesione alla persona di Gesù, la sapienza di Dio incarnata, e non a un insieme di dottrine senza volto!
I destinatari, poi, a cui l’invito di Gesù è rivolto sono descritti come “stanchi e oppressi”. L’idea che se ne deduce è quella di persone che lavorano duramente e che camminano curvi sotto un carico pesante. Ma di quale stanchezza e di quale peso si tratta esattamente?
Qualche esegeta ha avanzato l’ipotesi che Gesù intendesse indirizzarsi a quanti conducono una vita difficile e penosa. In tal caso, però, si tratterebbe della fatica legata al vivere in quanto tale, una fatica di cui tutti noi – chi più chi meno – facciamo esperienza nell’affrontare la quotidianità con tutti i suoi risvolti, talora appunto difficili da sopportare.
Coerentemente col contesto è dunque più probabile che qui Gesù si stia rivolgendo alla gente che penava sotto il peso insopportabile del legalismo giudaico e che si sentiva smarrita e scoraggiata di fronte alle troppe e complicate prescrizioni della legge, ben 613.
«Prendete il mio giogo sopra di voi…»
Per descrivere simbolicamente il gravame provocato dalla quasi impossibilità di osservare compiutamente la legge con i suoi innumerevoli precetti, Gesù ricorre all’immagine del “giogo”: la legge giudaica è come un giogo che opprime e non lascia liberi. E ad esso Gesù contrappone il suo, che definisce “dolce e leggero”. In che senso è dolce e leggero? Enucleiamo tre motivi.
1. Primo: anche se Gesù non ha avuto intenzione di abolire la legge mosaica, egli l’ha comunque liberata da una precettistica complicata e l’ha ricondotta al suo vero centro: la carità («Rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. (…) Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto» (Col 3,12-14). La carità è il cuore pulsante della legge cristiana!
2. Secondo: Gesù non mette al primo posto la legge, ma la grazia, ossia il dono gratuito dell’amore infinito con cui Dio ci viene sempre incontro. La legge morale viene in un secondo momento, quale gioiosa risposta all’esperienza del sentirci amati da Lui («Quis non amantem rédamet? – Chi non riamerà Colui dal quale è amato?»: Inno all’Uficio delle Letture della Solennità del S. Cuore). Alla luce dell’amore del Signore, dal quale siamo raggiunti quotidianamente, anche ciò che è dificile diventa più facile da sopportare.
3. Terzo: Gesù, come abbiamo detto all’inizio, non è un maestro come gli altri. Egli, infatti, non si limita ad insegnare per poi, una volta terminato l’insegnamento, abbandonare i discepoli a sé stessi. Al contrario, egli li ha assicurati della sua costante presenza, perché – prima di ascendere al cielo – ha promesso ai suoi che sarebbe stato con loro sino alla fine del mondo (cf. Mt 28,20). La sua compagnia ci è di consolazione e di incoraggiamento.
Ecco perché il giogo di Gesù, per quanto impegnativo, è dolce e leggero! Prenderlo su di sé, infatti, più che nell’osservare una serie di precetti richiede innanzitutto che si “faccia afidamento sulla sua persona”, che ci si lasci afferrare e affascinare da lui e gli si vada dietro.
In fondo questo è ciò che anche l’Oblazione secolare benedettina richiama. Essa non è altro che una più profonda presa di coscienza delle esigenze del Battesimo, che si traduce in un impegno quotidiano a vivere e testimoniare il Vangelo di Gesù nella propria vita, sotto l’ispirazione della Regola benedettina che del Vangelo è un valido compendio.
«… e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita»
Come è noto, nel linguaggio biblico il cuore rappresenta la realtà intima e profonda di una persona, ed è proprio la sua realtà intima che Gesù vuol condividere con noi, promettendoci ristoro per la nostra vita.
Nell’autodefinirsi “mite e umile di cuore”, Gesù si distanzia certamente da atteggiamenti di superiorità, di arroganza, di durezza. Egli è sì un maestro solerte, ma discreto e paziente. Tuttavia, vi è un’interpretazione più profonda di quell’espressione, la quale, per essere correttamente compresa va ricondotta al linguaggio antico-testamentario. Per quest’ultimo, l’essere miti e umili di cuore comporta un vero e proprio modo di stare davanti a Dio e agli uomini: davanti a Dio, con un atteggiamento di confidenza, docilità e obbedienza; davanti agli uomini, con un atteggiamento di accoglienza, di pazienza, di comprensione, di disponibilità al perdono e al servizio. Di questa duplice modalità Gesù ci ha dato l’esempio con la sua stessa vita!
Inoltre, il fatto che Gesù inviti ad “imparare” da lui, significa che la mitezza e l’umiltà non appartengono in maniera naturale alla nostra natura umana, la quale, istintivamente, propenderebbe piuttosto per la superbia e l’arroganza. La mitezza e l’umiltà provengono da Dio, dal quale proviene Gesù stesso, e perciò sono un suo dono. Sant’Antonio abate affermava:
«Un uomo non può essere buono, non può essere compassionevole, anche se con la sua volontà vi si applica con tutte le sue forze, a meno che Dio non abiti in lui, perché nessuno è buono, se non Dio solo».
La bontà – che è l’altra faccia della mitezza e dell’umiltà – è una conseguenza della disponibilità a lasciare agire in noi la potenza di Dio. Un cuore mite, umile, e dunque buono e compassionevole, si forma alla scuola della bontà misericordiosa di Dio. Un apoftegma dei Padri del deserto dice:
«Un fratello disse: “Abba Giovanni delle Celle mi ha detto: ‘Guarda il frutto dei campi; sempre, prima che spunti la spiga, la pianta sta dritta, ma quando spunta la spiga, il suo frutto la piega verso il basso. Così avviene anche al monaco. Quando non ha frutto per il Signore, non si può trovare in lui la vera compassione, ma quando nell’uomo c’è il frutto, egli si piega, si sottomette in ogni modo a motivo del Signore, e l’uomo piegato, chinato, l’uomo compassionevole, è l’uomo che ha dentro il frutto del Signore, che è stato toccato dal sentimento di Dio, che nasce da Gesù, che mette l’uomo ai piedi dell’altro’”».
Tuttavia, la capacità di fare spazio all’azione di Dio in noi sarà possibile nella misura in cui coltiviamo la consapevolezza di essere “ultimi”, nel senso evangelico del termine. San Benedetto lo richiede espressamente al monaco quando, al settimo gradino della scala dell’umiltà, scrive: «Il settimo gradino dell’umiltà è che non solo con la propria bocca egli si dica inferiore e più spregevole di tutti, ma anche nell’intimo del suo cuore sia convinto di esserlo» (RB 7,51-52).
Quando c’è questa intima percezione, allora Dio trova in noi un terreno fertile su cui lavorare e può donarci un cuore mite e umile come quello del suo Figlio Gesù, affinché – a nostra volta – possiamo vivere e testimoniare agli altri la bontà, la compassione e la misericordia che lo stesso Signore riversa su di noi. E così sia.