S.BENEDETTO E L’EUROPA
Ab. Donato Ogliari osb
Già pubblicato su Il Gazzettino di Noci, anno 2015
La festa liturgica di S. Benedetto, che la Chiesa universale celebra l’11 luglio, ci offre l’occasione per soffermarci a riflettere sul significato che, lungo i secoli, il monachesimo benedettino ha rivestito per il nostro Vecchio Continente. Senza dubbio, infatti, S. Benedetto può a buon diritto essere annoverato tra le grandi figure che hanno forgiato l’anima europea. Il suo insegnamento e la sua testimonianza di vita hanno portato alla formazione di quell’umanesimo benedettino che – soprattutto nel Medio Evo – ha dato voce all’umanesimo cristiano, influendo profondamente sulla civiltà europea e costituendo un tratto essenziale dell’ethos europeo.
Il medium di questo influsso duraturo sull’Europa che andava emergendo dal crollo dell’Impero Romano, è stato la Regola di S. Benedetto e la sua azione educatrice, azione esercitata non solo sul piano religioso, ma anche su quello culturale (grazie alla preservazione e alla diffusione della cultura classica greco-latina, frutto della solerte laboriosità e competenza dei monaci amanuensi), e su quello economico e sociale: si pensi alle profonde e talora rivoluzionarie migliorie apportate in campo amministrativo, tecnico e agricolo.
Nella Lettera Apostolica Pacis nuntius – con la quale, nel 1964, il Beato Paolo VI proclamava san Benedetto «Patrono principale dell’intera Europa» – il papa riconosceva apertamente che lungo i secoli i monaci di S. Benedetto avevano portato «il progresso cristiano alle popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alle pianure della Polonia» con la croce, con il libro e con l’aratro.
«Con la croce – continuava Paolo VI – cioè con la legge di Cristo, [Benedetto] diede consistenza e sviluppo agli ordinamenti della vita pubblica e privata. A tal fine va ricordato che egli insegnò all’umanità il primato del culto divino per mezzo dell’opus Dei, ossia della preghiera liturgica e rituale. Fu così che egli cementò quell’unità spirituale in Europa in forza della quale popoli divisi sul piano linguistico, etnico e culturale avvertirono di costituire l’unico popolo di Dio. (…) Col libro, poi, ossia con la cultura, lo stesso san Benedetto, da cui tanti monasteri attinsero denominazioni e vigore, salvò con provvidenziale sollecitudine, nel momento in cui il patrimonio umanistico stava dissipandosi, la tradizione classica degli antichi, trasmettendola intatta ai posteri e restaurando il culto del sapere. Fu con l’aratro, infine, cioè con la coltivazione dei campi e con altre iniziative analoghe, che riuscì a trasformare terre deserte e inselvatichite in campi fertilissimi e in graziosi giardini; e unendo la preghiera al lavoro materiale, secondo il suo famoso motto ora et labora, nobilitò ed elevò la fatica umana. Giustamente perciò Pio XII salutò san Benedetto “Padre dell’Europa”, in quanto ai popoli di questo continente egli ispirò quella cura amorosa dell’ordine e della giustizia come base della vera socialità».
Non è un caso che Paolo VI abbia parlato di “progresso cristiano” e abbia posto la “croce” a fondamento dell’opera educatrice e civilizzatrice svolta dal monachesimo benedettino nel Vecchio Continente. In tal modo, infatti, egli ha voluto rimarcare che tutto quello che il monachesimo benedettino è stato in grado di realizzare in ogni ambito del vivere è riconducibile a quella “legge di Cristo” dalla quale prende avvio la stessa vocazione monastica benedettina. Radicato nella costante “ricerca di Dio” (cf. RB 58,7), quale presupposto per la ricerca della verità sull’uomo, il monachesimo benedettino ha saputo produrre un “umanesimo integrale” in gradi di salvaguardare la persona umana e il suo imprescindibile rapporto con Dio.
Detto in altre parole, non è che i monaci benedettini avevano la vocazione innata a colonizzare, a dissodare, a creare fattorie modello, vere e proprie imprese d’avanguardia dove si conducevano audaci esperimenti di agronomia e si istruivano in maniera illuminata le masse rurali. Non avevano neppure, come loro scopo precipuo, quello di prosciugare le paludi, di costruire i mulini, di incrementare l’arte dell’apicoltura, di prendersi cura dei boschi, di coltivare nuove specie di frutti o di specializzarsi nella produzione vinearia, olearia e casearia. E neppure avevano come finalità primaria quella di recuperare e trasmettere la cultura classica o di svolgere un’azione evangelizzatrice diretta nelle regioni europee sulle quali i loro monasteri sorgevano a macchia d’olio. Eppure hanno fatto tutte queste cose e altre ancora. Perché?
La risposta sta nel fatto che tutto ciò che i monaci – in risposta alle esigenze dei tempi – hanno realizzato lungo i secoli, sia come propagatori culturali sia come “educatori economici”, è il frutto del loro radicamento in Cristo. Lo ribadiamo: tutto quello che i monaci hanno saputo realizzare ai più diversi livelli è il risultato di un’esistenza impostata e vissuta sul ritmo quotidiano del quaerere Deum, della ricerca di Dio, sulle orme di Cristo Gesù. In questo ideale era racchiuso anche il loro programma di vita: riconoscere che in ogni uomo e donna vi erano un fratello e una sorella da accompagnare, da accudire, da educare, da far progredire, da evangelizzare, da amare e da condurre felicemente verso il porto della vita eterna. In questo, soprattutto, consiste il miracolo benedettino di cui ancor oggi l’Europa – almeno quella non distratta e più sensibile – continua a beneficiare. Benedictus benedicat!