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Pasqua: FESTA della vita
Ab. Donato Ogliari osb

Già pubblicato su Il Gazzettino di Noci, anno 2015

«Per il cristiano, che unisce la propria morte a quella di Gesù, la morte è come un andare verso di lui ed entrare nella vita eterna». Così il Catechismo della Chiesa Cattolica, che ricorda al cristiano come la morte segni l’ingresso nella vita senza fine che Gesù ci ha spalancato con la sua Risurrezione. La celebrazione della Pasqua, e il suo protrarsi fino alla solennità di Pentecoste, ci offre l’occasione di riflettere su questa verità basilare del cristianesimo.

La morte, si sa, non ha mai goduto di molta simpatia, e benché in passato la si trattasse con maggior familiarità, essa ha sempre suscitato un’istintiva paura. La cultura odierna, dal canto suo, nel tentativo di occultarla il più possibile, tende a rimuoverne anche il pensiero, quasi volesse seppellire la morte ancor prima che i morti.

Senza dubbio, l’innalzamento dell’età, dovuto ad una migliore qualità della vita e alle possibilità sempre più ampie della medicina nel ripristinare la salute compromessa dalle malattie, ha contribuito a rendere ancor più remoto il pensiero della morte. Tuttavia, il censurarla o il rimuoverla dal proprio orizzonte col pretesto di rendere più facile e spensierata la propria vita, in realtà non fa che rendere quest’ultima ancora più fragile.

La celebrazione pasquale della Risurrezione di Gesù ci ha sollecitato non solo a guardare alla morte in maniera realistica – alla luce, cioè, della caducità della nostra natura umana –, ma ci ha soprattutto incoraggiato ad avere su di essa quello sguardo di fede che ce la fa appunto comprendere come un ingresso nella pienezza della vita, quella vera e intramontabile, inaugurata per noi dal Cristo Risorto.

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Tra i detti dei Padri del Deserto, i monaci egiziani vissuti nel III-IV secolo dell’era cristiana, ve n’è uno che narra di un santo monaco giunto in fin di vita. I fratelli, dopo averlo rivestito dell’abito monastico, si erano radunati attorno al suo capezzale e avevano iniziato a spargere lacrime al pensiero della sua morte imminente. Ad un certo punto, il monaco agonizzante «aprì gli occhi e si mise a ridere. E così fece una seconda e una terza volta. Al che i fratelli, stupiti, gli domandarono: “Dicci, Padre, perché noi piangiamo e tu ridi?”. Ed egli rispose loro: “La prima volta ho riso, perché voi temete la morte; la seconda, perché non siete pronti; la terza, perché dalla fatica io vado alla quiete”. E, detto questo, l’anziano si addormentò».

Questo, dunque, l’insegnamento: in primo luogo occorre imparare a non temere la morte, ma a familiarizzare con il fatto incontrovertibile che essa costituisce il punto terminale della nostra esistenza terrena. In secondo luogo, come credenti, siamo esortati a prepararci alla morte con una vita che rispecchi la bontà del Vangelo. Infatti, se – come dice la saggezza popolare – «si muore come si vive», sarà difficile morire bene se non si sarà vissuto bene, alla luce del duplice comandamento dell’amore: a Dio e al prossimo. In terzo luogo, siamo chiamati a nutrire la certezza – insita nella fede cristiana – che la vita eterna che ci attende nel Regno di Dio non conoscerà quei limiti, quelle sofferenze, quelle contraddizioni e quelle malvagità che segnano la storia del mondo. Inoltre, grazie alla Risurrezione di Gesù, l’eternità di Dio è già presente e operante in mezzo a noi, ogni qualvolta noi apriamo la nostra vita al bene. Infatti, attraverso ogni parola e gesto di bontà noi entriamo in contatto con l’Amore eterno di Dio e siamo da esso sostenuti. Da questo intuiamo come il mistero della vita eterna non sia una realtà avulsa dalla vita terrena, e come quest’ultima sia, di fatto, già contagiata dalla luce e dalla beatitudine del mondo divino.

Il cardinal Martini affermava che se «il paradiso è l’essere eternamente col Signore, nella beatitudine dell’amore senza fine», non bisogna tuttavia dimenticare che tale «relazione con il Signore, di una ricchezza per noi inimmaginabile, è il principio essenziale, il fondamento stesso di ogni beatitudine dell’esistere». Se da una parte è dunque auspicabile vivere nella consapevolezza che nulla di ciò che è terreno può compiutamente appagare l’insopprimibile anelito ad una felicità senza fine, dall’altra credere nel Signore Risorto e contemplare la vita nuova che Egli ci ha dischiuso, significa altresì essere coscienti della necessità di rendere la nostra vita terrena vulnerabile ai semi luminosi della vita infinita di Dio, che preme e già sconfina nei nostri giorni. È, infatti, «prima di morire che rischiamo di essere morti, se rifiutiamo per l’appunto di fare della nostra vita una creazione continua di grazia e di bellezza» (M. Zundel).