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Abate Donato Fratelli Oblati Rho San Paolo Roma

L’Abate Donato a Rho per i novanta anni dei Fratelli Oblati diocesani

Domenica 10 dicembre alle 18.00, l’Abate di san Paolo fuori le Mura, il Rev.mo dom Donato Ogliari, ha presieduto la solenne Eucarestia nel Santuario della Beata Vergine Addolorata di Rho. L’occasione era la chiusura delle celebrazioni del 90° anniversario di fondazione dei Fratelli Oblati Diocesani da parte del Card. Ildefonso A. Schuster avvenuta l’8 dicembre del 1932.

Un anno importante che ha visto anche la visita dei Fratelli Oblati al Santo Padre che li ha ricevuti in Udienza nel mese di aprile.

L’invito rivolto all’abate Donato evidenzia il legame dei Fratelli Oblati con il loro fondatore, il Cardinale Schuster appunto, abate di San Paolo fuori le Mura dal 1908 fino alla sua nomina ad Arcivescovo di Milano nel 1928.

Il testo integrale dell’Omelia pronunciata dall’Abate Donato domenica 10 dicembre :

CELEBRAZIONE EUCARISTICA DI RINGRAZIAMENTO
Fratelli Oblati Diocesani – RHO
10 dicembre 2023

Prima Lettura: Isaia 11,1-10
La Prima lettura, tratta dal profeta Isaia, esordisce con un’immagine suggestiva, quella del virgulto o germoglio che spunta sul tronco di Iesse. Se quest’ultimo è simbolo delle infedeltà della dinastia regale di Davide (che di Iesse era figlio), il virgulto è, invece, simbolo del Messia promesso, la cui apparizione appare subito come un dono assolutamente gratuito, in grado di riportare la vita in quel tronco semi-inaridito. La tradizione cristiana ha sempre interpretato questa profezia alla luce della venuta di Gesù. È lui il Messia atteso che porterà vita nuova e salvezza all’umanità ferita dal peccato

Degno di nota è l’utilizzo del termine ebraico “ruah” per indicare lo “spirito” che si poserà sul Messia. Il termine, infatti, significa anche “vento”. Perciò, come lo spirito/vento fa stormire il nuovo ramoscello spuntato sul tronco semi-inaridito di Iesse, rinfrescandolo e rafforzandolo, così lo Spirito Santo, che si poserà in totalità e pienezza su Gesù al momento del suo battesimo, sarà la sua forza, la sua luce, la sua anima, il legame indissolubile di amore che lo terrà intimamente unito al Padre suo.

Nella seconda sezione dell’inno isaiano siamo, invece, colpiti dalla profezia di un mondo rinnovato, un mondo cioè nel quale regneranno per sempre la giustizia e la pace. Quello che Isaia descrive è addirittura un mondo idilliaco, un nuovo paradiso a tutti gli effetti, dove ciò che in natura è contrapposto sarà congiunto in armonia: così il lupo dimorerà insieme con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto, il leone si ciberà di paglia, come il bue, il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso, parallelismo – quest’ultimo – che richiama l’inimicizia più radicale, quella tra l’essere umano e il serpente, simbolo del Maligno.

L’armonia universale di cui parla il profeta è dunque trasversale. Non tocca solo gli esseri umani, ma raggiunge anche il mondo infra-umano. Il messaggio che ci è consegnato è chiaro: se anche tra l’uomo e il creato esiste uno stretto legame, allora occorre che vigiliamo affinché tale legame non venga infranto. Di qui la necessità di essere promotori di giustizia e artigiani di pace non solo nelle relazioni che intrecciamo con i nostri simili, ma anche in quelle che intratteniamo con il creato, poiché dal tipo di relazione che intendiamo stabilire con quest’ultimo scaturiranno effetti benefici oppure rovinosi. Se, infatti, guardiamo al creato con occhio benevolo e limpido, avranno la meglio la salvaguardia e la cura della “casa comune”. Ma se ha il sopravvento uno spirito rapace, finalizzato ad un mero sfruttamento egoistico, allora gli sfregi che infliggeremo al creato finiranno con l’innescare processi di squilibrio che potrebbero portare alla sua implosione, con danni irreparabili non solo per esso, ma anche per tutti noi che l’abitiamo. Infine, non va dimenticato che il tipo di rapporto che decidiamo di instaurare con il creato si ripercuoterà a sua volta sulle nostre relazioni sociali e sulla convivenza tra i popoli, poiché siamo tutti connessi tra di noi e con ciò che ci circonda! Le parole del profeta Isaia racchiudono, dunque, un invito a rapportarci nel modo giusto sia con i nostri simili sia con il creato, poiché esso pure – come scrive l’apostolo Paolo – è destinato a partecipare, un giorno, della libertà della gloria dei figli di Dio (cf. Rom 8,19ss).

Dal momento che questa nostra celebrazione eucaristica intende veicolare il ringraziamento dei Fratelli Oblati Diocesani al termine di un anno di festeggiamenti occasionati dal novantesimo anniversario della loro fondazione da parte del Beato Card. Ildefonso Alfredo Schuster – mio predecessore alla guida dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura dal 1918 al 1929 –, vorrei raccordare quanto detto finora alla loro preziosa presenza nella Chiesa ambrosiana.

Innanzitutto mi piace trasporre l’immagine del virgulto o germoglio alla famiglia di questi nostri Fratelli Oblati. Come il virgulto è caratterizzato dalla piccolezza, così anche la loro presenza – come ha ricordato papa Francesco nell’udienza loro concessa lo scorso aprile – si pone come «un segno, piccolo ma importante» nella realtà della Chiesa ambrosiana, un segno umile ma efficace, che – come lievito nella pasta – attesta il loro impegno nel contribuire alla crescita del Regno di Dio nelle pieghe della quotidianità.

Analogamente al virgulto, anche la freschezza e la vitalità del carisma dei Fratelli Oblati hanno bisogno di essere preservate, evitando che ci si appiattisca su percorsi già esplorati e routinieri, e mantenendosi aperti alle sollecitazioni dello Spirito. È lo Spirito, infatti, a ispirarci una fedeltà dinamica e creativa che, pur rimanendo fedele all’intuizione originaria, rimane spalancata su un futuro inedito, pronta a esplorare nuovi percorsi alla luce della creatività e dell’immaginazione della fede. Solo una siffatta fedeltà è capace di rigenerarsi e di continuare a generare vita, apportando nuova linfa al vecchio tronco. Se per i Fratelli Oblati c’è senza dubbio un passato da ricordare e per il quale ringraziare il Signore – come stiamo facendo questa sera –c’è però anche e soprattutto un futuro da costruire con entusiasmo, gioia e generosità.

Per quanto concerne l’armonia universale descritta dal profeta Isaia, vorrei riprendere l’augurio rivolto ai Fratelli Oblati da papa Francesco. Dopo aver sottolineato la prima specificità del loro essere – quello della “fraternità” – il Santo Padre terminava augurando loro di vivere «la gioia di essere fratelli». Tale gioia è in primo luogo quella che si è chiamati a sperimentare all’interno della propria famiglia religiosa. Essa costituisce, infatti la palestra quotidiana nella quale – pur tra inevitabili fatiche e asperità relazionali – si impara a rispettarsi sempre di più, ad aiutarsi reciprocamente e ad amarsi gratuitamente alla luce del Vangelo di Gesù. Tuttavia, questa gioia che nasce dalla fraternità condivisa non deve limitarsi al solo ambito dei rapporti interpersonali che voi, Fratelli Oblati, intrecciate quotidianamente all’interno della vostra Famiglia, ma è chiamata anche a tracimare all’esterno, coinvolgendo le relazioni che instaurate con coloro a cui è rivolto il vostro servizio. Si tratta dunque di una gioia diffusiva, una gioia che – anche qui – non si ferma al rapporto con i propri simili, ma va oltre fino ad abbracciare il creato, riconoscendo in esso un’impronta della bontà di Dio per noi e traducendosi in impegno a vivere in armonia con esso.

VANGELO: Gv 1,19-27a. 15c. 27b-28
Da Gerusalemme le autorità giudaiche avevano inviato a Giovanni il Battista alcuni sacerdoti e leviti, appartenenti al gruppo dei Farisei, per interrogarlo circa la sua reale identità: «Tu, chi sei?».  Giovanni risponde senza esitazioni di non essere lui il Cristo, cioè il Messia atteso dal popolo d’Israele. Questa asserzione, espressa in forma negativa («Io non sono il Cristo»), sarà riformulata da Giovanni il giorno seguente in forma positiva, quando, vedendo Gesù venire verso di lui, dirà: «Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29), indicando in tal modo che era lui, Gesù, il Messia atteso, il Cristo di Dio. Emerge qui in tutta la sua portata la vera funzione di Giovanni il Battista, quella, cioè, di indicare la venuta del Messia. Distraendo l’attenzione da sé e negando energicamente di essere lui il Cristo, egli lo indica in Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, precisando in tal modo che la sua testimonianza non riguardava un Messia assente, che doveva ancora venire, ma un Messia già presente in mezzo ai suoi.

Dopo aver asserito di non essere lui il Cristo, Giovanni, svela finalmente la sua identità, e lo fa usando un’immagine altamente suggestiva, quella della voce: «Io sono voce di uno che grida nel deserto». Da questa espressione intuiamo come l’i­dentità di Giovanni sia comprensibile unicamente in rapporto al Signore di cui è voce. Sì, Giovanni è solamente la voce. Ciò che la sua voce veicola – ossia la parola e il suo contenuto – non proviene da sé stesso, ma appartiene a un Al­tro. Sì, Giovanni si fa eco delle parole luminose – parole di verità – che proven­gono da Dio stesso. Si può ben dire che la sua identità ultima è comprensibile solo in rapporto a Dio!

Quella domanda: «Tu, chi sei?», è ora rivolta a ciascuno di noi. È una domanda che ci tocca in profondità e ci obbliga a sfrondare la nostra vita da apparenze e illusioni, riconciliandoci – se ce ne fosse bisogno – con l’umile verità di noi stessi. Ciascuno di noi, infatti, dovrebbe poter dire in tutta semplicità e umiltà: «Io non sono l’uo­mo prestigioso che vorrei es­sere né il fallito che temo di essere. Io non sono ciò che gli altri credono di me, né un santo, né solo peccatore. Io non sono il mio ruolo o la mia immagine. La mia i­dentità ultima è Dio» (E. Ronchi).

Al di là delle nostre fragilità e dei nostri limiti dovremmo poter mostrare che in Dio è racchiuso il senso ultimo del nostro vivere. Anche noi, al pari di Giovanni, dovremmo mostrare di essere voce di Dio, umili trasmettitori della sua Parola di verità e strumenti del suo amore. E come Giovanni, che si è definito «voce di uno che grida nel deserto», anche noi dovremmo sentirci spronati a preparare ogni giorno la via al Signore qui e ora, nei deserti che talora sperimentiamo nella nostra anima e nei deserti di un’umanità smarrita, ferita, che sembra escludere Dio dall’orizzonte della propria esistenza. Il nostro impegno ad essere voce del Signore in ogni situazione e circostanza della vita, anche in quelle più difficili, è il modo concreto con cui possiamo testimoniare la nostra fede nel Signore Gesù e il nostro desiderio di essere un riflesso del suo amore nel mondo. Guardando a Lui, nel quale risiede la radice profonda del nostro essere e del nostro agire di cristiani, impariamo a fare della nostra vita un dono, un servizio di amore gratuito e umile a quanti incontriamo sul nostro cammino.

Sempre papa Francesco ha raccomandato ai nostri Fratelli Oblati che il loro non sia «un servizio di quelli che tutti dicono: che bravo!, un servizio da applaudire, “che fa notizia”. No. Un servizio nascosto, umile, a volte anche umiliante. Questa – lo sappiamo – è la strada da seguire per ogni cristiano. Voi però – continua il papa – l’avete per carisma: l’oblazione. E anche qui, a chi vive così, lo Spirito Santo dona una gioia interiore. (…) La beatitudine del servizio».

Questo augurio lo vogliamo fare nostro, reindirizzandolo non solo ai Fratelli Oblati, ma anche a ciascuno di noi qui presente: la gioia o la beatitudine del servizio sia il grazie più bello che possiamo innalzare a Dio, non solo in occasioni speciali come questa, ma ogni giorno della nostra vita.

La Vergine madre, che in questo Santuario si venera sotto il titolo di Addolorata, interceda per i nostri Fratelli Oblati e per tutti noi, ci avvolga nel suo manto materno e, prendendoci per mano, ci indichi la via che conduce a Gesù, volto misericordioso del Padre, fonte della vera pace e della gioia che non conosce tramonto, sorgente della fede, della speranza, della carità. E così sia.

U.I.O.G.D

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