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Natale del Signore, Messa della Notte. L’Omelia del Rev.mo Dom Donato Ogliari, abate di San Paolo fuori le Mura

1In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. 3Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. 4Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nazaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. 5Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 6Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.

8C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. 9Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, 10ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. 12Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». 13E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,1-14).

Siamo qui questa notte per proclamare la nostra fede in un mistero che sorpassa la nostra ragione. Credere, infatti, che in un bambino fragile e indifeso, adagiato in una mangiatoia – come ci ha raccontato l’evangelista Luca – sia presente Dio stesso, va oltre la nostra capacità di comprensione. È un mistero che possiamo accogliere unicamente nella fede. È dunque alla luce di quest’ultima che, contemplando il mistero del Dio-fatto-Bambino, desideriamo attingere un po’ di luce per il cammino che dobbiamo affrontare quaggiù.

La prima lettura, tratta dal profeta Isaia, e il racconto evangelico di Luca, ci hanno offerto due immagini che hanno come comune denominatore due realtà contrastanti: le tenebre e la luce.

Per quanto riguarda l’immagine delle tenebre, il profeta Isaia descrive il popolo d’Israele deportato in Babilonia come un popolo che camminava, appunto, nelle tenebre e viveva in terra tenebrosa, mentre l’evangelista Luca narra dei pastori che vegliavano il gregge di notte. Le tenebre sono un simbolo dell’uomo che vive un’esistenza buia nella quale Dio non sembra trovare spazio. E qui il pensiero corre subito alle nostre società fortemente scristianizzate, soprattutto in Occidente, dove per molti Dio non sembra destare più alcun interesse ed è stato esiliato dalla propria vita. In altre parole, le tenebre di cui parlano la prima lettura e il brano evangelico possono essere assurte a simbolo dell’uomo contemporaneo che, di fronte alle grandi domande: perché si vive? perché si muore? perché c’è la sofferenza? perché c’è tanto male, egoismo, odio, sopraffazione, violenze e guerre fratricide nel mondo?, si affida unicamente alla propria ragione e si accanisce nel voler trovare in sé stesso e da sé stesso una risposta che gli dia una qualche sicurezza di riuscire a mantenersi a galla nelle acque insidiose di questa vita e che non lo induca alla disperazione.

Per contro, l’immagine della luce presente sia nella prima lettura (segno della liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù babilonese) sia nel brano evangelico può essere intesa come simbolo dell’uomo che anela a liberarsi dal buio che lo avvolge e che cerca una luce, appunto, che gli indichi la direzione da seguire e infonda un senso al proprio cammino. Nel contesto di questa celebrazione natalizia, la simbologia della luce che squarcia le tenebre allude, infatti, ad un’ esistenza che si lascia avvolgere dal fulgore di Cristo – vera luce del mondo – e si affida alla luce che da Lui promana, luce che dissipa le tenebre dell’angoscia, della disperazione, del peccato, del male e della morte.

Alla base di tutto ciò, la luce che Cristo Gesù è venuto ad offrirci nella sua persona, è innanzitutto quella della prossimità di Dio. Gesù – come annunciato dall’angelo ai pastori – è Colui che è nato “per noi”, l’Emmanuele, il “Dio con noi”. Nel Figlio Gesù, nato nell’umiltà della grotta di Betlemme, Dio ha scelto una volta per sempre di stare vicino all’uomo e di farsi suo compagno di viaggio per fargli sperimentare la forza luminosa del suo amore misericordioso che risana e salva.

Ora, il saperci raggiunti dall’amore misericordioso di Dio ci sospinge ad orientare anche la nostra vita su questa medesima lunghezza d’onda. Come Dio in Gesù è stato e continua ad essere misericordioso con noi, così anche noi siamo chiamati ad essere misericordiosi gli uni verso gli altri, a non giudicare o condannare frettolosamente, a sforzarci di comprendere, di perdonare e, soprattutto, di amare chi ci sta accanto con la stessa sollecitudine paziente e fiduciosa di Gesù, che non ha mai azzerato mai la speranza nella capacità dell’essere umano di cambiare.

Tuttavia, per essere un riflesso dell’amore misericordioso di Dio che Gesù ha incarnato in Sé stesso, occorre che facciamo nostre due dimensioni emerse dalle letture proclamate: l’attesa vigilante il cammino.

1. La prima attitudine ci è suggerita dai pastori. Essi – come abbiamo sentito – «pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge». Se dovessimo rendere letteralmente il testo evangelico, questa espressione andrebbe tradotta così: «pernottando all’aperto [essi] custodivano le veglie della notte facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8b). In altre parole, i pastori non trascorrevano la notte vegliando in maniera vuota e inoperosa. Al contrario, col cuore desto e vigilante essi “custodivano” le veglie notturne sia facendo la guardia al gregge sia attendendo pazientemente le luci dell’alba, pronti ad intercettarne i primi segnali.

Proviamo per un attimo a identificarci con i pastori. Come loro, anche noi siamo chiamati a vegliare, cioè a custodire le persone e le cose che ci sono state affidate, e a captare – per poi custodire anch’essi – i segni luminosi della presenza di Dio nel mondo, nella nostra storia personale, familiare, comunitaria, segni che ci parlano dell’amore con cui il Signore ci viene sempre incontro, anche quando ci sentiamo abbandonati e avvolti dalle tenebre dello sconforto, della desolazione, dello scoraggiamento, del peccato.

Se li sappiamo scorgere, il Signore offre sempre dei segni della sua presenza amorosa. Il riconoscerli produce quella stessa “grande gioia” che hanno sperimentato i pastori quando hanno accolto l’annuncio della nascita del Salvatore, gioia che nasce dal sapersi destinatari dello sguardo benevolo e misericordioso con cui Dio si fa nostro compagno di viaggio nel cammino della vita. Sì, oltre che «condizione della nostra salvezza», questo amore che non viene mai meno, è per noi anche «fonte di gioia, di serenità e di pace», poiché «apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato» (papa Francesco).

2. La seconda attitudine che, come cristiani, siamo chiamati a far nostra, la ricaviamo dalle parole iniziali della prima lettura: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce» (Is 9,1). Per andare incontro alla luce, infatti, occorre mettersi in cammino, come il popolo della prima lettura, ma anche come i pastori del brano evangelico, i quali – come scrive l’evangelista – «andarono senza indugio» alla grotta di Betlemme.

In questo camminare e in questo andare possiamo ravvisare il percorso della fede cristiana, la quale – quando è autentica – non è mai statica, ma, appunto, sempre in movimento; mai sazia di quello che sperimenta e vive, ma sempre aperta al futuro che viene. La fede, infatti, è essa stessa un cammino che ci conduce in maniera sempre nuova e mai ripetitiva all’incontro con Gesù e all’esperienza di Lui, il quale ha sempre «da offrirci qualcosa di straordinario: il senso della vita, il gu­sto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del servizio, lo stupore della vera libertà, la voglia dell’impegno. Lui solo può restituire al nostro cuore, indurito dal­le amarezze e dalle delusioni, rigogli di speranza» (Don Tonino Bello).

Non va, tuttavia, dimenticato che una fede autentica e gioiosa sboccia necessariamente nella testimonianza viva dell’amore che il Signore riversa su di noi e della pace che promana dal suo cuore infinitamente misericordioso. Le sopraffazioni, le violenze di ogni genere e le guerre che insanguinano e abbruttiscono il nostro pianeta – da ultimo quella che imperversa nella Terra Santa, la terra che ha visto Gesù nascere, vivere, morire, risorgere e salire al cielo – richiedono che noi ci poniamo di fronte al mondo quali profeti di un amore capace di risanare le ferite, le divisioni, l’odio e – direi – la stessa indifferenza, che rischia di serpeggiare anche nel nostro cuore e di renderlo insensibile ai bisogni e alle sofferenze di tanti nostri fratelli e sorelle.

 Vorrei allora concludere con le parole di una grande santa contemporanea, Madre Teresa di Calcutta. Si tratta di parole semplici che riguardano ciascuno di noi, perché ciascuno di noi dovrebbe impegnarsi a trasformare gli avvenimenti e gli incontri che fanno parte del suo vissuto quotidiano in altrettante occasioni per seminare parole e gesti di comprensione, di condivisione, di pace e di amore che contribuiscano a rendere più bello e fraterno il volto dell’umanità. Trasformiamo queste parole di santa Teresa di Calcutta in un augurio da scambiarci reciprocamente:

È Natale ogni volta / che sorridi a un fratello / e gli tendi la mano.

È Natale ogni volta / che rimani in silenzio / per ascoltare l’altro.

È Natale ogni volta / che non accetti quei principi / che relegano gli oppressi ai margini della società.

È Natale ogni volta / che speri con quelli che disperano / nella povertà fisica e spirituale.

È Natale ogni volta / che riconosci con umiltà / i tuoi limiti e la tua debolezza.

È Natale ogni volta / che permetti al Signore / di rinascere per donarlo agli altri.

E così sia.

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