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L’Omelia dell’Abate Donato nel giorno della Solennità di San Benedetto Abate Patrono Primario d’Europa

SOLENNITÀ DI S. BENEDETTO

11 luglio 2025

Gv 15,1-8

Nella “Colletta” – ossia nella preghiera che ho cantato a nome di tutti voi all’inizio di questa solenne celebrazione eucaristica – abbiamo chiesto al Signore che ci conceda «di non anteporre nulla all’amore del Cristo e di correre con cuore libero e ardente» nella via dei suoi precetti. Si tratta di espressioni che la liturgia ha attinto dalla Regola di san Benedetto e che riguardano la centralità dell’amore di Cristo e la sequela di Lui, descritta come una “corsa” sorretta da un cuore libero e ardente.

Il verbo “correre” doveva piacere molto a san Benedetto. Nel solo Prologo alla sua Regola, nel quale annuncia il suo programma monastico, lo utilizza tre volte, a cominciare dalla citazione giovannea: «Camminate mentre avete la luce, perché le tenebre non vi sorprendano» (Gv 12,35), dove san Benedetto si concede una licenza sostituendo il verbo “camminare” con quello più dinamico di “correre” (cf. Prol. 13), quasi volesse imprimere un movimento accelerato alla vita di fede del monaco. Poi – sempre nel Prologo – san Benedetto associa il verbo “correre” sia alla vita monastica, che definisce «vita di luce», sia a ciò che in essa si sperimenta, ossia la «indicibile dolcezza dell’amore», espressione, questa, che tocca l’anima della vita monastica.

Intuiamo subito che il correre a cui allude san Benedetto non ha niente a che fare con la rapidità e la frenesia che caratterizzano la vita moderna e che, in ultima analisi, riguardano la prestazione e la realizzazione personale o collettiva, legate soprattutto alla produzione e al profitto. Nell’accostare il correre alla “vita di luce” e alla «indicibile dolcezza dell’amore», san Benedetto ha, invece, in mente la dimensione qualitativa della vita e in particolare la vita di fede.

Soffermiamoci dunque brevemente su questi due accostamenti operati da san Benedetto per cogliere la sapienza spirituale che essi veicolano, e non parla solo ai monaci, ma anche a tutti i credenti in Cristo.

Correre durante questa “vita di luce”

Nell’esortare i suoi monaci a vivere con responsabilità il tempo loro concesso su questa terra, san Benedetto, verso il termine del Prologo alla sua Regola, scrive: «Durante questa vita di luce, dobbiamo correre, impegnandoci a fare ora quello che ci sarà utile per l’eternità» (Prol. 43-44).

I monaci dei primi secoli dell’era cristiana avevano scelto di ritirarsi nel deserto perché, nell’immaginario collettivo, si riteneva che questo luogo desolato e inospitale fosse la dimora preferita dai demoni. L’intento dei monaci era, infatti, quello di combattere faccia a faccia l’oscurità del male, al fine di rendere il mondo più luminoso. Essi erano, cioè, consapevoli che aderire a Cristo, “luce del mondo”, comportava un confronto diretto con le tenebre del male, proprio come aveva fatto lo stesso Gesù (cf. Gv 1,5 et passim).

Anche san Benedetto, soprattutto all’inizio della sua vita monastica, aveva dovuto ingaggiare una lotta serrata contro il Tentatore. Nel luogo in cui egli aveva inizialmente vissuto come eremita per tre anni, il Sacro Speco di Subiaco, è posta un’iscrizione che recita così:

«Se cerchi la luce, Benedetto, perché scegli la grotta buia? La grotta non offre la luce che cerchi. Continua pure a cercare nelle tenebre la luce fulgente, perché solo in una notte fonda brillano le stelle».

La “grotta buia” è metafora delle prove e delle tentazioni con le quali chiunque desideri porsi alla sequela di Gesù deve prima o poi confrontarsi. Ci sono prove e tentazioni provocate dall’ostilità del Maligno, che cerca di ostacolare in tutti i modi la nostra adesione a Gesù e la nostra amicizia con Lui, ma vi sono anche prove e tentazioni che sono causate dalla nostra insipienza o dalla nostra poca fede; così come vi sono prove e tentazioni che il Signore permette – a mo’ di potatura, come ci ha ricordato la pagina evangelica proclamata – affinché la nostra vita cristiana fruttifichi maggiormente. Tuttavia, è proprio nella “notte fonda” delle prove e delle tentazioni che la nostra fede – se siamo interiormente docili all’azione della Grazia – viene forgiata ed emerge in tutta la sua luminosità, come le stelle, appunto, che più la notte è oscura e più appaiono in tutta la loro lucentezza.

San Benedetto desidera, dunque, che i suoi monaci conducano una “vita di luce”, che corrano, cioè, sotto la guida di quella stella luminosa che è il Vangelo, per intercettare e testimoniare la presenza salvifica del Signore anche là dove le tenebre sembrano avere il sopravvento e oscurarla. Ma per condurre una “vita di luce” occorre anche che non allentiamo la lotta contro le fascinazioni del male, e non soccombiamo alla sottile tentazione di una vita facile e mediocre, fatta magari di osservanze esteriori puntuali, ma priva della luce gioiosa dello Spirito Santo, quella luce che, appunto, fa correre sulla via del Vangelo. Al riguardo vi è un Detto dei Padri del deserto che recita così:

«Un giorno abbà Lot andò da abba Giuseppe e gli disse: “Abbà, per quanto mi è possibile osservo una regola moderata, con un po’ di digiuno, di preghiera, di meditazione e di quiete; e per quanto mi è possibile cerco di mondarmi il cuore dai pensieri cattivi. Che cos’altro dovrei fare?”. Allora il vecchio si alzò e tese al cielo le sue mani aperte, e le sue dita divennero come dieci fiaccole, e disse: “Se vuoi, puoi diventare una fiamma vivente!”».

Sì, il monaco è chiamato ad essere una “fiamma vivente”, una traccia luminosa dell’amore fedele di Dio per l’umanità. Soprattutto nell’attuale temperie culturale, così infarcita di passioni tristi che generano spaesamento, incertezza e paura, vi è bisogno di uomini e donne che riflettano la luce beatificante del Cristo e del suo Vangelo. Sentiamoci dunque sospinti – monaci e credenti tutti – ad attingere alla luce di Cristo, quella luce che dà senso al nostro cammino; che ci impedisce di atrofizzarci nella mediocrità del quieto vivere; che rinnova in noi la fede fiduciosa nel futuro di grazia con cui Dio ci viene incontro; che riscalda il nostro cuore e mantiene vivo il fuoco sempre nuovo della speranza e della carità.

Correre nella “indicibile dolcezza dell’amore”

Il secondo accostamento, quello nel quale il “correre” è associato alla “indicibile dolcezza dell’amore”, è inserito in un’esortazione che san Benedetto rivolge ai suoi monaci affinché non si lascino prendere dallo sgomento se la via intrapresa può inizialmente apparire stretta, dura, difficile. Occorre perseverare – continua san Benedetto – perché «con l’avanzare nella vita monastica e nella fede, il cuore si dilata e con indicibile dolcezza d’amore si corre sulla via dei comandamenti di Dio» (Prol. 49).

San Benedetto ci insegna che chi desidera seguire Gesù, deve lasciarsi guidare dalla “speranza che non delude”, ossia dall’amore di Dio riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo (cf. Rom 5,5). Solo così sarà possibile affrontare qualsiasi difficoltà o restrizione e sperimentare – man mano che si cresce nella fede e si avanza nella sequela di Gesù e nell’adesione al suo Vangelo – come l’amore faccia dilatare il nostro cuore e ci renda capaci di correre nella luce benigna del Signore che ci avvolge, ci sostiene e ci salva.

È una certezza, questa, che san Benedetto condivide con la tradizione spirituale cristiana. Basti pensare, al riguardo, a due belle espressioni, rispettivamente di san Girolamo e di sant’Agostino. Il primo diceva:

«Nulla è duro per quelli che amano, nessuna fatica riesce difficile a chi brama qualcosa. Amiamo noi pure il Cristo, cerchiamo sempre l’unione con lui, allora ci sembrerà facile ogni cosa difficile».

Dal canto suo, il grande vescovo di Ippona affermava:

«Quando uno ama, le fatiche non sono in alcun modo pesanti (…). Quando si ama, non si fatica, o, se si fatica, questa stessa fatica è amata». E ancora: «L’amore rende assolutamente facili e riduce quasi a nulla le cose più spaventose ed orrende (…) le cose che sono aspre per coloro che provano affanno, si addolciscono per quelli che amano».

Luce e amore sono due aspetti della stessa essenza di Dio. Come ha scritto l’apostolo ed evangelista Giovanni: «Dio è Luce» (1Gv 1,5) perché «Dio è Amore» (1Gv 4,8.16). L’Amore di Dio è sempre luminoso!

Anche per noi, dunque, sorelle e fratelli carissimi, non sarà possibile condurre una “vita di luce” se quest’ultima non è irrorata dall’amore che proviene da Dio, quell’amore che, riverberandosi nelle nostre parole e nei nostri gesti, ci rendono tracce luminose di infinito nel mondo, tracce che generano armonia e pace, in noi e attorno a noi. Di questa luce e di questo amore sia permeato il nostro cammino e sia sostenuta la nostra quotidiana corsa dietro a Gesù, in compagnia dei nostri fratelli. E così sia!

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