Vivere il tempo
alla luce della fede
Ab. Donato Ogliari O.S.B.
Già pubblicato su Il Gazzettino di Noci, anno 2015
Il contributo dello scorso mese terminava con una domanda rivolta ai miei pochi e perseveranti lettori, con i quali vorrei ora condividere la mia risposta, che qui formulo brevemente alla luce della fede cristiana.
«Il rapporto che il cristiano vive col tempo – scriveva il card. Carlo M. Martini – appare, a prima vista, paradossale: il tempo è per il cristiano, da un lato, qualcosa di prezioso, di denso, di pieno, e dall’altro, qualcosa di leggero, di relativo».
Sì, quello che noi calcoliamo coi nostri orologi e coi calendari, ossia il tempo cosmico o cronologico, altro non è che lo sfondo inafferrabile sul quale si svolge la nostra vita. E in tal senso il tempo è qualcosa di leggero, di relativo, che scorre inesorabilmente come la sabbia tra le dita. Dall’altra, il tempo è qualcosa di denso, di pieno, di prezioso, perché, dopotutto, è in esso che noi ci muoviamo ed esistiamo, ed è al suo interno che noi cerchiamo un senso allo scorrere dei nostri giorni. Questo senso il cristiano lo cerca nell’unica realtà che perdura nel tempo e che non è soggetta a svanire nel nulla: Dio. Quello che il credente cerca di decifrare nelle pieghe del tempo che passa è proprio la sua compagnia che mai viene meno. E quello che egli cerca di scorgere nella vita di ogni giorno sono le sue tracce amicali che profumano di eterno.
Come afferma Anselm Grün: «Il tempo è sempre quel momento in cui io incontro Dio, in cui Dio vorrebbe mostrarmi la sua vicinanza e donarmi la sua grazia e la sua attenzione. Il mio compito sta nell’abbandonarmi a questo momento e nel decidermi per questa salutare e amorosa vicinanza divina, invece di sfuggire a me stesso e a Dio rifugiandomi in un tempo che scorre e basta. Secondo questa visione, il tempo compiuto è qualcosa in cui coincidono tempo ed eternità. È il tempo che è stato compiuto e riempito da Dio».
Di fatto, nella concezione cristiana il tempo cosmico o cronologico assume una qualificazione salvifica grazie al kairós, il “tempo favorevole” della salvezza (cf. 2Cor 6,2) inaugurato da Gesù. Ce lo ricorda anche il tempo quaresimale che stiamo vivendo, un tempo di quaranta giorni nei quali il credente è chiamato a recuperare la dimensione della salvezza all’interno della sua quotidianità, in un più intenso rapporto di amicizia con Il Signore, il quale si pone come senso definitivo per il tempo che ci si apre dinanzi, in quanto Egli è «l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine» (Ap 22,13). Per il cristiano, l’evento-Cristo è la chiave di lettura che modifica radicalmente il senso della condizione umana e del destino della storia, i quali sono ormai indelebilmente segnati dalla sua presenza. Egli, infatti, è «l’unità di misura, di valore e di senso di tutto ciò che accade nel tempo degli uomini» (F. Botturi).
Sul piano soggettivo, dunque, il tempo presente diventa un tempo salvifico nella misura in cui il credente, esercitando la sua libertà, lo vive come un “dono di Dio”. E ciò avviene quando non si lascia assoggettare da un tempo meramente orizzontale e mondano «di cui si ingrassa la morte» (L. Lombardi Vallauri), ma sa accogliere e vivere il tempo anche nella sua dimensione verticale, quella, appunto, che collega l’uomo con l’Eterno di Dio.
Al contrario, quando l’uomo si conforma al tempo orizzontale o mondano, esso diviene per lui «una prigione, uno strumento di dissoluzione, e l’uomo stesso vi diviene un–essere–per–la–morte» (J. Mouroux). È la tragedia del “tempo invertito”, di un tempo, cioè, che l’uomo crede di poter asservire alle sue esigenze, ma dal quale è in realtà fagocitato, minuto dopo minuto. In definitiva, il tempo invertito si fonda sul rifiuto di Dio ed esclude che l’uomo possa trovare in Lui la sorgente vivificante del proprio essere.
Ecco perché il credente è chiamato a riappropriarsi del tempo sganciandosi dalle manipolazioni e dalle pressioni di una società consumistica e superficiale che vorrebbe fargli credere che il tempo sia bene impiegato solo quando ci si consegna ad esso, come se lo si potesse dominare riempendolo di cose da fare.
Fermarci e scandagliare il centro del nostro essere, lì dove forgiamo le nostre decisioni e prepariamo le nostre scelte, diventa allora un bisogno impellente del cuore e della vita. E come credenti, la Quaresima viene a a ricordarci questa necessità indicandoci in Cristo la via da seguire. In fondo non siamo che un umile frammento di umanità e potremmo meglio comprendere noi stessi e l’anima delle cose e del mondo se ci lasciassimo abbagliare dall’Assoluto. Forse abbiamo proprio bisogno di recuperare un umanesimo integrale, equilibrato e sereno, un umanesimo nel quale ci sia posto per Dio e per la sua amicizia. Un umanesimo che, sorretto e illuminato dalla parola e dalla testimonianza di Gesù, ci permetta di concentrarci sull’essenziale, sui valori e sulle cose che veramente contano per la nostra e altrui felicità, e che ci consenta di dilatarci oltre il nostro piccolo “io” nelle vie del bene e della pace, della giustizia e della solidarietà.