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Il desiderio
Ab. Donato Ogliari osb

Già pubblicato su Il Gazzettino di Noci, anno 2015

Per le sue molteplici connessioni, il desiderio è uno dei sentimenti più presenti nel nostro vivere quotidiano, a tal punto che potremmo definirci come un “fascio di desideri”. Di fatto, viviamo di essi e di essi, anche se talora inconsciamente, ci alimentiamo. Sono loro, i desideri, a tenere desto il nostro spirito e a sospingerlo in avanti. Si potrebbe dunque dire che vivere è desiderare così come il desiderare è vivere.

Poiché il termine latino “de-siderare” (da cui il sostantivo “de-siderium”) significa “fissare attentamente le stelle” (in latino, appunto, sidera) e, in senso figurato, volgere lo sguardo verso ciò che attrae, qualcuno ha scritto che il “desiderio è il sentimento che gioca con le stelle”. Tradotto in termini esistenziali, possiamo dire che nel desiderare vi è come un trascinamento delle emozioni, dei sentimenti, della razionalità e della volontà verso qualcosa che ci attrae fortemente e catalizza il nostro pensiero e il nostro operato.

Ma il termine “de-siderare” – se si considera il prefisso “de” nel senso di separazione o allontanamento – allude anche al distogliere lo sguardo dal cielo per mancanza di sidera, ossia di stelle. Ciò avveniva, ad esempio, presso le antiche civiltà, come quella romana, quando l’assenza o la non visibilità delle costellazioni impediva agli àuguri di trarre gli auspici richiesti. In tal caso la dimensione del desiderio assume, appunto, la forma di una “mancanza”, di una “assenza”, pur rimanendo viva la tensione verso ciò che è scomparso dalla vista e di cui si avverte la mancanza.

È importante trattenere questo duplice significato del termine desiderio poiché in tal modo siamo rammentati che ciò che affascina e attrae non è sempre raggiungibile, come una stella del firmamento, appunto, che talora rimane nascosta allo sguardo. Il desiderio ha dunque in sé questa doppia valenza: da una parte attrae e dall’altra si ritrae.

Questa considerazione ci offre un ulteriore spunto di riflessione, che cioè il desiderio in quanto tale non si spegne una volta che si sia ottenuto ciò che ci attraeva e ci mancava o si sia soddisfatto un bisogno. Il desiderare è in sé un anelito costitutivo del nostro essere, e il suo perdurare in noi richiama quella sete di infinito che portiamo in cuore e che nessuna realtà materiale potrà mai spegnere o sostituire: né successo, né fama, né apparire, né potere, né ricchezza, né l’assolutizzazione del benessere fisico. E tuttavia, neppure i desideri positivi, come quelli legati alla pace, alla concordia, all’unità, agli affetti veri e genuini o alla salvaguardia del creato, trovano un soddisfacimento definitivo su questa terra, anche se essi – rispetto a quelli negativi e schiavizzanti – ci liberano interiormente, ci aiutano a realizzarci in maniera autenticamente umana e, proprio per questo, ci avvicinano anche di più a Dio.

Tra questi desideri positivi, un posto primario dovrebbero occuparlo le relazioni con gli altri, perché è soprattutto nei rapporti vicendevoli che si traduce il nostro bisogno di amare e di essere amati, di stimare e di essere stimati, bisogno che sta alla base del nostro vivere. Occorre tuttavia riconoscere che anche questo desiderio/bisogno di verità e di profondità che fa da perno alle relazioni interpersonali autentiche e le anima dal di dentro, non troverà mai quaggiù un appagamento definitivo. Infatti, in colui/colei che mi sta di fronte vi è un’irriducibilità o un’ulteriorità costitutiva che neppure nelle esperienze più nobili e autentiche – come quelle vissute da quanti si amano intimamente nell’anima e nel corpo o che sono strettamente uniti da un amore di amicizia – è possibile bypassare. Vi è cioè un nucleo di noi stessi che rimane inafferrabile, e questo è un altro segno della nostra finitudine e dell’impossibilità di godere di una perfetta e continua esperienza di benessere interiore ed esteriore, di pace, di giustizia, di verità, di bontà e di bellezza.

Di riflesso, l’esperienza di questa irriducibilità, ci dice che noi siamo fatti per una realtà infinitamente più grande di quella finita e transeunte che ricade sotto i nostri occhi. A questa realtà “infinitamente più grande” noi cristiani diamo il nome di Dio. Dio solo, infatti, può appagare la nostra sete di infinito, e solo nell’affidamento a Lui, Luce intramontabile, il susseguirsi della nostra quotidiana esistenza può trovare la sua verità e il suo amore. Ne consegue che, in quanto credenti, siamo chiamati a dilatare il nostro cuore e a convogliare nel desiderio di Dio tutti i desideri in esso contenuti, al fine di poter affermare, insieme con il Salmista: «Davanti a te ogni mio desiderio» (Salmo 38,10).

Perché ciò avvenga occorre, però, che educhiamo e purifichiamo quotidianamente i desideri che scorrono nelle vene della nostra esistenza. Come? Mi permetto di suggerire una duplice pista: quella della preghiera e quella della carità.  Sant’Agostino dice che il cuore della preghiera è il desiderio. In un passo molto noto, egli scrive: «Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera. Qualunque cosa tu faccia, se desideri non smetti mai di pregare. Il tuo desiderio continuo sarà la tua continua voce». E ancora: «Chi desidera, anche se tace con la lingua, canta con il cuore; chi invece non desidera, anche se ferisce con le sue grida le orecchie degli uomini, è muto dinanzi a Dio».

Ma il desiderio di Dio arde e cresce nella misura in cui si coniuga con la carità, nella misura cioè in cui la preghiera alimenta la carità ed è, a sua volta, da essa alimentata. Senza il desiderio di Dio, anche la carità deperisce. Più uno desidera Dio, che è Carità (cf. 1Gv 4,8), e più la sua vita si conforma ad essa: «Il gelo della carità è il silenzio del cuore; l’ardore della carità è il grido del cuore. Se sempre permane la carità, tu sempre gridi; se sempre gridi, sempre desideri» (S. Agostino).