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Le coordinate esistenziali del tempo e dello spazio
Ab. Donato Ogliari osb

Luglio 2015

Le coordinate all’interno delle quali consumiamo la nostra quotidianità sono il tempo e lo spazio; il primo inafferrabile e inarrestabile, il secondo circoscrivibile e più facilmente assoggettabile. È in essi che prende forma tutto ciò che nasce, cresce, si sviluppa e muore. Nel loro vicendevole richiamarsi, però, essi non rappresentano solamente delle dimensioni naturali nelle quali si dipanano i nostri giorni, ma ci si offrono anche come “luoghi dello spirito”, nei quali siamo chiamati a trovare un senso al nostro esistere.

 

Per quanto riguarda il tempo, l’accelerazione o – come qualcuno l’ha significativamente definita – la “rapidazione” (termine derivante dalle “rapide” di un fiume) impressa al ritmo di vita delle nostre società occidentali, ha finito col condurre l’uomo a sfruttare al massimo l’attimo presente e a vivere in modo frammentato. Si può facilmente dedurre, perciò, quanto sia diventato arduo oggi vivere il tempo come un alleato al quale consegnare una propria progettualità e nel quale trovare un senso unificatore al proprio essere e al proprio fare. È stato detto che «una vita quotidiana vissuta come attimo sospeso nel vuoto di un tempo senza trama, si frantuma, disperdendo anche l’identità del soggetto (…). Dove il tempo e lo spazio vengono considerati unicamente come barriere da abbattere e l’accelerazione non ha altra finalità che se stessa, prendono corpo modi di essere fondati sull’insoddisfazione e il risentimento» (G. Paolucci).

Infine, l’accelerazione del tempo porta anche all’erosione del passato e alla perdita della sua memoria. «La nostra epoca – afferma Milan Kundera – si abbandona al demone della velocità ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se stessa». E lasciando trapelare una certa amarezza, aggiunge: «Se accelera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira più a essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria». Purtroppo, più l’uomo vive da “smemorato”, escludendosi dalla linfa vitale che gli giunge dal passato – quel passato nel quale affondano le sue radici – e più egli farà l’esperienza di ritrovarsi a procedere a tentoni verso un futuro amorfo e infido.

 

Va da sé che l’accelerazione impressa ai ritmi della nostra quotidianità finisce col ripercuotersi anche sul modo con cui ci rapportiamo allo spazio, giacché quest’ultimo è strettamente connesso con il tempo. E così, più che un luogo amicale da “abitare”, ossia da rispettare e da apprezzare, anche lo spazio finisce con l’essere considerato come un ostacolo da rimuovere, una realtà da “divorare” il più in fretta possibile. Ma è stata soprattutto la crescente mobilità delle persone e la loro mescolanza a far sì che i luoghi delle proprie origini, che prima erano rivestiti di un significato identitario e fungevano da solido riferimento socio-culturale e religioso, abbiano ora perduto d’incidenza. Se prima era evidente a tutti che «essere è abitare» (M. Heidegger), e che avere «un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (C. Pavese), ora, in un mondo sempre più globalizzato e in movimento, l’approccio allo spazio e all’abitare si è profondamente modificato. Per quanto poi riguarda lo spazio abitato, la sua percezione è stata resa ancor più elastica dalla possibilità, ormai offerta a tutti, di evadere senza limitazioni di sorta dagli spazi della quotidianità attraverso la realtà “virtuale” del world wide web (www)[1]. Quest’ultimo, da strumento di comunicazione qual era, ha finito, infatti, col diventare anche un modo di concepirsi. Al riguardo c’è chi parla addirittura di “mutazione antropologica” provocata dall’irruzione del web nella nostra vita quotidiana. Si pensi – giusto per portare un esempio estremo – al crescente fenomeno della cosiddetta “second life”, una “seconda vita”, tutta virtuale, offerta dal web. Se in parte copia quella vera, per il resto essa offre infinite possibilità di adattamento alle più svariate situazioni, rese possibili e accessibili dal mondo virtuale.

Come si può costatare, la percezione del tempo e dello spazio nel corso degli ultimi decenni è andata davvero mutando in maniera considerevole. Ecco perché è importante chiederci in che modo noi percepiamo questo mutamento. Siamo anche noi tra quelli che considerano il tempo e lo spazio solo nella loro materialità o sappiamo invece viverli alla luce della fede cristiana, scorgendo in essi un senso ultimo che avvalora e illumina il nostro cammino esistenziale, il nostro lavorare, il nostro gioire, il nostro soffrire e il nostro morire?

[1] Per un’acuta analisi in proposito, si veda: A. Spadaro, «Second life». Il desiderio di un’«altra vita», in La Civiltà Cattolica 2007, Vol. III, pp. 266-278.