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SIAMO FIGLI DELLA SPERANZA
Ab. Donato Ogliari osb

Già pubblicato su Il Gazzettino di Noci, anno 2015

Quando affermiamo che il cristiano è un “credente”, alludiamo al fatto che egli aderisce con l’assenso del cuore, dell’intelletto e della vita alla rivelazione di un Dio che è Trinità, “uno” nella natura divina e “trino” nelle persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. Ed è grazie all’incarnazione del Figlio in Gesù di Nazareth, che ci è stata rivelata l’essenza di Dio: l’Amore. Che la vita del cristiano trovi la sua massima espressione nella testimonianza dell’amore o della carità è, dunque, una conseguenza della sua fede in un Dio che è Amore. Ecco perché una fede senza la testimonianza dell’amore, ossia senza le opere di carità, è morta. L’apostolo Giacomo ce lo ricorda a chiare lettere: «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

Che anche la speranza determini sostanzialmente l’esistenza del cristiano è, invece, una verità spesso ed erroneamente lasciata in second’ordine. Per segnalare l’insopprimibile rilevanza che anche la speranza riveste nella vita del cristiano, Charles Péguy usa un’immagine molto suggestiva. La speranza cristiana – afferma – è come una bambina che cammina tra le due sorelle più grandi (la fede e la carità) e che, perdendosi nelle loro gonne, neppure si nota. Per questo motivo si è portati a credere «che siano le due grandi che tirino la piccola per mano (…) e invece è lei, nel mezzo, che tira dietro le sue sorelle grandi (…). È lei, quella piccina, che trascina tutto. Perché la Fede non vede che quello che è. E lei vede quello che sarà. La Carità non ama che quello che è. E lei, lei ama quello che sarà».

La speranza, dunque, non è una mera appendice della fede e della carità. Al contrario, è quella virtù che le sostiene entrambe. Se è indubbio che nella vita cristiana la priorità appartiene alla fede, il primato appartiene tuttavia alla speranza. Infatti, «senza la conoscenza di Cristo che si ha per la fede, la speranza diverrebbe un’utopia sospesa in aria. Ma, senza la speranza, la fede decadrebbe, diverrebbe tiepida e poi morirebbe. Per mezzo della fede l’uomo trova il sentiero della vera vita, ma soltanto la speranza ve lo mantiene» (Jurgen Moltmann). La vita del cristiano scorre dunque all’insegna della speranza, senza la quale non solo la fede ma neppure la carità potrebbe mantenere la sua consistenza e riverberarsi nel quotidiano in tutta la sua luminosa fecondità.

In che cosa poi consista l’oggetto della speranza cristiana, esso ci è chiaramente indicato da san Paolo: «Noi speriamo in Cristo». Lui solo «è la nostra speranza», perché in Lui solo, il Risorto, «siamo stati salvati». È in Lui, il Signore che vive in eterno, che i cristiani sono rigenerati ad una «speranza viva» e sono abilitati a dire in tutta verità: «Noi siamo figli della speranza!» (san Giovanni Crisostomo). Lo aveva ben sperimentato la Maddalena, sulla cui bocca la sequenza pasquale Victimae paschali laudes ha messo queste parole: «Surrexit Christus spes mea! – È risorto il Cristo, mia speranza!».

La speranza di cui ci nutriamo, e che trova il suo punto focale nella risurrezione di Cristo, non riguarda però solamente l’anelito ad un mondo futuro nel quale, sconfitta la morte, si godrà della vita senza fine. Nella speranza cristiana, infatti, è già possibile pregustare, nei solchi della quotidianità, quella reciproca e totale appartenenza che caratterizzerà l’unione dell’uomo con Dio, della creatura col suo Creatore. Per questo san Paolo scriveva: «Non continuate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza». E ancora: «Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore». Se così è, allora non vi può essere alcun spazio per la tristezza, e tanto meno per la di-sperazione.

Proprio perché quella che coltiva nel Signore è una speranza «che non delude» (Rm 5, 5), il cristiano è altresì incoraggiato ad assumere la fatica del quotidiano nei suoi risvolti personali, familiari, comunitari, sociali, con uno sguardo che – pur cogliendo la difficile complessità di cui il quotidiano è sovente portatore – tuttavia va oltre e la sorpassa. «Quando il mondo dice: “Rinuncia!” – scrive un Anonimo –, la speranza sussurra: “Prova ancora una volta!», perché «la speranza vede l’invisibile, tocca l’intangibile e raggiunge l’impossibile».

Ogni giorno daccapo, dunque, il cristiano è chiamato a varcare fiduciosamente la soglia della speranza, quella speranza che mai tramonta e di cui è garanzia il Cristo risorto. Quella speranza che ridà fiato alla sua fede e rinvigorisce le sue opere di carità. Quella speranza nella quale la luce rasserenante della Pasqua s’irradia senza interruzione sul suo cammino, «quella cosa piumata / che si posa sull’anima / canta melodie senza parole / e non smette mai» (Emily Dickinson).