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LA VITA, UN VIAGGIO- parte I
Ab. Donato Ogliari osb

Già pubblicato su Il Gazzettino di Noci, luglio 2014

Il termine “viaggio” deriva dal provenzale viatge, che, a sua volta, è un’evoluzione spontanea del latino viaticum, sostantivo con cui nell’antica Roma si designava l’insieme di oggetti e provviste preparati in vista di un viaggio. Come è noto, la Chiesa ha adottato il termine viaticum per  indicare il sacramento dell’Eucaristia che il cristiano riceve prima di morire, come “approvvigionamento” per affrontare l’ultimo viaggio.

Di fatto, al di là del suo significato immediato – quello cioè di spostamento fisico da un luogo all’altro – il termine “viaggio”, soprattutto sul piano religioso e cristiano, è applicato simbolicamente alla vita che l’uomo conduce su questa terra, e al suo passaggio da quest’ultima all’aldilà. Lo testimoniano espressioni appartenenti al linguaggio di tutti i giorni come: “venire al mondo” e “andare all’altro mondo”, che alludono rispettivamente al nascere e al morire. Ma la metafora spaziale, legata al viaggio, tocca anche lo scorrere della vita nella sua ordinarietà. Non diciamo forse che “siamo a un bivio” quando le circostanze ci impongono una scelta? O che “siamo finiti fuori strada” quando abbiamo preso una decisione sbagliata? O che “siamo in un vicolo cieco” quando ci troviamo in una situazione critica e non riusciamo ad intravedere una via d’uscita?

I miei cinque lettori mi perdoneranno se, impossibilitato ad entrare nel dettaglio, mi limiterò ad una riflessione di carattere generale sul “viaggio” come simbolo dell’esistenza umana e del suo significato.

 

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La differenza fondamentale tra l’uomo e gli altri esseri viventi consiste nel fatto che l’essere umano – questa “canna pensante”, come la definiva il filosofo e matematico Blaise Pascal – ha la consapevolezza di compiere il suo “viaggio” terreno, e si pone delle domande sul suo senso primo ed ultimo, perché e da dove esso prenda avvio e dove esso conduca.

Il riferimento a Dio, che proviene dal “valore aggiunto” della fede, costituisce la linea di demarcazione circa il significato da attribuire al viaggio di quaggiù. Chi non crede ed elimina Dio dall’orizzonte della propria vita, si affanna a fondarne qui e ora il senso su se stesso e sulle proprie capacità umane, ritenendo che la morte sia l’ineluttabile capolinea oltre il quale non vi sarebbe che il nulla. Il credente, al contrario, fonda già ora il senso del proprio vivere in Dio, e nutre la ferma speranza che la sua vita terrena non si arenerà nelle secche del nulla, ma si spalancherà su un “oltre” – che è Dio stesso – nel quale l’anelito infinito di amore, di luce e di pace troverà il suo approdo sicuro e definitivo. Vi è dunque una differenza notevole tra l’affrontare il viaggio della vita da soli oppure insieme con Dio!

Significativa, in proposito, è la contrapposizione espressa da due figure che appartengono al pensiero dell’umanità: il mitologico Ulisse e il biblico Abramo. Ulisse, oltre che dell’astuzia, è anche simbolo dell’uomo che affronta l’ignoto con la sola forza dell’ingegno. Secondo Dante (cf. Inferno, canto XXVI,85-142), il suo peccato – il suo “folle volo” – consiste precisamente nell’aver a tal punto esaltato la propria intelligenza da aver dimenticato l’intrinseca limitatezza del suo stato creaturale, trasformando il desiderio positivo di seguire “virtute e conoscenza” in un’irragionevole negazione dell’esistenza di ogni limite. Trasposto su un piano religioso, la figura di Ulisse risulta in qualche modo speculare a quelle di Adamo ed Eva che, pure, credevano di poter trascendere la propria creaturalità e diventare come Dio!

Al viaggio avventuroso dell’Ulisse omerico possiamo accostare anche quello anti-conformistico narrato dallo scrittore statunitense Jack Kerouac nel suo romanzo On the road (Sulla strada). I protagonisti – tutti giovani della beat generation – viaggiano per il continente nordamericano senza una meta fissa, sospinti unicamente da una concezione di vita opposta alla comune aspirazione ad una fissa dimora, ad un lavoro stabile e ad una gestione responsabile della propria esistenza. Essi si muovono alla continua ricerca di nuove esperienze, mai sazi di quello che hanno sperimentato e sempre affascinati dall’inedito. In una parola, la loro vita scorre senza una ragione precisa, sull’onda di quel credo che ritroviamo sulla bocca degli stessi protagonisti: “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”. “Dove andiamo?”. “Non lo so, ma dobbiamo andare”.

Per converso, Abramo è il simbolo dell’uomo che – pur aperto a un futuro inedito – non fonda il proprio cammino esistenziale su se stesso, non si affida esclusivamente alle proprie capacità e al proprio ingegno, né si consegna al caso. Egli accoglie nel suo orizzonte vitale colui che lo ha creato, Dio; ne ricerca con passione la volontà e, scopertala, vi aderisce di buon grado, convinto che essa sia finalizzata al suo bene. In questa luce, Abramo affronta il viaggio della vita – nel suo caso anche in senso fisico-spaziale e non solo metaforico – insieme con Dio, fidandosi della sua Parola e lasciandosi da essa guidare: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”. (…) Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Gen 12,1.4a).

Alla fine Ulisse e i suoi straniti epigoni di On the road compiono un percorso circolare: da se stessi a se stessi o, altrimenti detto, su se stessi. Vaga, sì, verso l’ignoto ma, dopo aver affrontato molte peripezie, fa ritorno al punto di partenza, alla loro rispettiva Itaca, e lì il cerchio si richiude attorno a loro. Abramo, invece, esce da se stesso per andare verso l’Altro. Come viandante – e simbolo del credente – egli si incammina verso un futuro ignoto, verso la vera e definitiva patria (figura di quella celeste), sapendo che non farà più ritorno nella sua terra di origine. Sorretto da una fede radicale, senza appigli concreti e senza una garanzia tangibile, si mette fiduciosamente in cammino verso la terra promessa – ossia verso la pienezza della vita – che è sì una terra ancora da scoprire, ma nello stesso tempo e in qualche modo già a lui familiare perché abitata dall’impronta di un Dio che cammina insieme con lui, al suo fianco. E questo gli basta per intravedere la luce nuova di cui risplende il futuro che gli viene incontro. (continua)