La spiritualità del cuore
Ab. Donato Ogliari osb
Già pubblicato su Il Gazzettino di Noci, anno 2015
In molte culture il cuore è considerato non solo come il luogo dove ha sede la vita, ma anche come il simbolo delle emozioni e dei sentimenti, in particolare quello dell’affetto o dell’amore per una persona. Quante rappresentazioni stilizzate di cuori e cuoricini, da quelle più innocue, colorate sui quadernetti della scuola materna in occasione della festa della mamma, a quelle più passionali, incise sulle cortecce degli alberi o dipinte sui muri dagli innamorati.
Anche in ambito cristiano il cuore evoca l’amore di Dio per l’essere umano, un amore incommensurabile, manifestatosi in maniera concreta e definitiva con la morte di Gesù in croce. Lì il suo cuore trafitto diventa il simbolo di un amore totale, che si trasforma nel dono estremo di sé per la salvezza dell’uomo (Gv 19,34). È per questa ragione che ogni anno la Chiesa celebra solennemente la festa liturgica del “Sacratissimo Cuore di Gesù”, e tradizionalmente dedica ad esso il mese di giugno, così come dedica quello di maggio alla Madonna. Ora, il fatto che la Chiesa abbia riservato una festa particolare per commemorare il cuore di Gesù – simbolo dell’amore infinito di Dio per l’uomo – significa che la comprensione di tale simbolo non può essere ridotta al solo ambito personale, ma ha una sua valenza liturgica ed ecclesiale. L’aspetto cultuale e celebrativo ci consente, infatti, di guardare alla festa del “Cuore di Gesù” come ad un’opportunità per misurare la nostra vita cristiana sull’esempio di Lui, nostro Maestro e Signore.
Innanzitutto, occorre evitare che l’energia affettiva del credente – simboleggiata del “cuore” – sia sganciata dalla vita liturgica ecclesiale, e scada nel sentimentalismo, a scapito della testimonianza di fede. Questo non significa che la dimensione spirituale non abbia bisogno di una carica affettiva. Significa semplicemente che quest’ultima va ben indirizzata, poiché in tal caso essa svolge una funzione di riequilibrio contro il rischio di una vita spirituale che tende ad assestarsi su un freddo e asettico intellettualismo.
La significatività della celebrazione liturgica del “Sacratissimo Cuore di Gesù” consiste dunque in un effettivo radicamento della simbologia del cuore nella sostanza della vita teologale, ossia in quella pienezza di fede, speranza e carità. In tal senso, il culto e la devozione al Cuore di Gesù diventano uno stimolo a riconoscere la presenza del suo amore misericordioso nella nostra vita, una presenza che ci accoglie, ci avvolge e ci coinvolge, e che ci spinge ad essere a nostra volta una presenza colma di amore. «Una vita senza amore – infatti – è come un giardino senza sole e coi fiori appassiti» (O. Wilde).
Di fatto, nella scena della trafittura del costato/cuore di Gesù sulla croce, siamo confrontati con le articolazioni più importanti della nostra vita cristiana, in particolare con quell’aspetto dell’amore che ha nome compassione, ossia quel movimento dell’anima che ci rende sensibili alla sofferenza altrui e ci porta ad un intimo coinvolgimento con essa. Come dice, del resto, lo stesso termine “compatire”, che significa “soffrire con”. Naturalmente, la specificità della compassione cristiana è quella di essere legata all’esperienza di Gesù, e una traduzione di ciò che i suoi discepoli sono chiamati a mostrare è racchiusa nella figura del “buon samaritano” della parabola evangelica (cf. Lc 10,30-37), modello di chi si piega sulle necessità e sulle sofferenze altrui e le fa proprie con cuore disinteressato e generoso. In un apoftegma dei Padri del deserto si legge: «Prima che spunti la spiga, la pianta sta dritta, ma quando spunta la spiga, il suo frutto la piega verso il basso. Quando l’uomo non ha frutto per il Signore, non si può trovare in lui la vera compassione, ma quando in lui vi è il frutto, egli si piega. L’uomo piegato, chinato, l’uomo compassionevole, è l’uomo che ha dentro il frutto del Signore, che è stato toccato dal sentimento di Dio, quello che nasce da Gesù, e che fa sì che un uomo si chini ai piedi dell’altro».
La compassione non è un sentimento debole, come pensava Nietzsche, e altri con lui, ma un sentimento forte. Essa rappresenta la vittoria dell’amore che, anche quando tutto sembra sgretolarsi nell’indifferenza, non esita a piegarsi affinché la vita e la speranza siano l’ultima parola.