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Vespri nel Bicentenario

Nella Solennità di san Benedetto Patrono principale d’Europa, l’Abate Donato martedì 11 luglio alle

18.00 ha presieduto la preghiera dei Secondi Vespri.

 

La concomitanza con il bicentenario dell’incendio della Basilica di San Paolo fuori le Mura, avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 1823, ha fatto sì che fossero presenti rappresentanti di alcune denominazioni cristiane “in segno di comunione fraterna”, come ricordato dall’Abate Donato nella sua omelia riportata qui integralmente.

ALLA SCUOLA DELLA SPERANZA
Vespri della Solennità di San Benedetto – 11 luglio 2023
Nel Bicentenario dell’incendio della Basilica di San Paolo fuori le Mura (1823-2023) Ab. Donato Ogliari OSB

In questa solennità di San Benedetto, fondatore del Monachesimo occidentale e Patrono principale d’Europa, abbiamo voluto inserire nella preghiera dei Vespri il ricordo dell’incendio che, divampato duecento anni orsono, nel 1823, nella notte tra il 15 e il 16 luglio, distrusse buona parte della grandiosa Basilica teodosiana innalzata attorno al sepolcro dell’apostolo Paolo.

Per l’occasione abbiamo voluto dare a questa nostra preghiera anche un volto ecumenico. Siamo perciò molto grati agli amici di alcune Chiese sorelle che – nonostante il periodo estivo e il caldo cocente – hanno aderito al nostro invito e ci hanno fatto dono della loro presenza, segno di comunione fraterna.

Viene subito da chiedersi: perché ricordare un evento disastroso? Innanzitutto perché ogni avvenimento – buono o cattivo che sia – entra a far parte della storia, e, nella fattispecie, il funesto incendio del 1823 è divenuto parte indelebile della storia plurisecolare di questa Basilica di San Paolo fuori le Mura. Ricordare il passato è dunque un modo ineludibile per conoscere la storia sulla quale riposa anche il nostro presente. Oggi poi, il ricordare rappresenta una sfida alla dittatura dell’hic et nunc, del “qui e ora”, con cui la nostra società odierna tende a valutare come importante solo il presente, relegando nell’oblio ciò che è passato.

Infine, ricordare l’incendio che ha devastato questa basilica ci riporta inevitabilmente anche alla paziente opera di ricostruzione di questo insigne edificio di culto, e al processo di ri-significazione che l’ha accompagnata.

Non ricordiamo, dunque, l’incendio della basilica come un evento in sé, ma come un evento che, per quanto rovinoso, ha innescato un processo che l’ha proiettata in un nuovo

futuro, un processo generativo, abitato da aspettative, sogni, progetti, speranze che hanno trovato una loro realizzazione.

È proprio su questo sfondo che vorrei brevemente riflettere con voi sulla virtù teologale della speranza, quella virtù che ci consente di non rimanere prigionieri del lamento, dello sconforto e dello status quo, e che ci dà la forza di interpretare anche gli avvenimenti drammatici in maniera prospettica, ossia con uno sguardo fiducioso che non solo si apre al futuro, ma che, in qualche modo, a questo futuro si affida, immaginandolo e preparandolo.

In ultima analisi, la stessa ricostruzione materiale della Basilica di San Paolo fuori le Mura è stata la risposta concreta a questo sguardo rivolto al futuro e al desiderio – sorretto dalla speranza – di mantenere viva la missione spirituale a cui questo edificio aveva assolto per secoli, quella dell’annuncio del Vangelo di salvezza di Gesù, di cui il sepolcro dell’Apostolo Paolo rappresentava la cifra sintetica.

La speranza dunque. Solitamente si è portati a definire l’esistenza cristiana come una vita di fede, vissuta nella sequela di Gesù e del suo Vangelo e concretizzata nella testimonianza della carità. La speranza invece – che pure, assieme alle altre due virtù teologali, la fede e la carità, determina sostanzialmente la vita cristiana – non trova spesso quell’attenzione che merita, nonostante che, di fatto, sia lei a inondare la fede e la carità di una luce speciale e di una forza particolare.

Suggestiva, al riguardo, è l’immagine che lo scrittore francese Charles Péguy utilizza per descrivere la virtù della speranza. Essa è da lui immaginata come una bambina che cammina tra le due sorelle più grandi – la fede e la carità appunto – e che, perdendosi tra le loro gonne, neppure si nota. Contrariamente a quel che potrebbe sembrare, però, non sono le due sorelle più grandi ad accompagnare per mano la sorella più piccola, ma è lei, la piccina, che, stando nel mezzo, trascina con sè le due sorelle più grandi. E lo fa – qui cito Péguy – perché «la Fede vede quello che è, la Speranza vede quel che non è ancora e che sarà. La Carità ama quello che è, la Speranza ama quel che non è ancora e che sarà».

La speranza cristiana ci aiuta, dunque, ad aprirci con fiducia alle novità del futuro, e lo può fare perché ha il suo intimo riferimento nella persona di Cristo Gesù morto e risorto (cf. Col 1,27; 1Tm 1,1). È grazie alla sua risurrezione, infatti, che Dio ci ha rigenerati «per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce» (1Pt 1,4). Noi siamo «figli di questa speranza» (G. Crisostomo). In essa troviamo «un’ancora sicura e salda per la nostra vita» (Eb 6,19), e grazie ad essa possiamo guardare in avanti con occhi nuovi.

Un’ultima annotazione: se la forza propulsiva della speranza cristiana consiste in uno sguardo fiducioso rivolto al futuro e aperto all’inedito, essa, tuttavia, racchiude in sé anche la capacità di convivere con la pazienza. Infatti, se da una parte la speranza cristiana trascina e affretta il passo, dall’altra sa attendere quello che spera. L’apostolo Pietro, parlando del giorno in cui il mondo si dissolverà per cedere il posto a cieli nuovi e terra nuova, dice che i credenti aspettano e affrettano la venuta del giorno del Signore (cf. 2Pt 3,12). Affrettano nella speranza, ma senza anticipare temerariamente l’oggetto sperato. Anche quando lo intravvedono, essi sanno attendere con pazienza il suo inveramento.

L’intima alleanza che la speranza cristiana intreccia con la pazienza le permette di non arrendersi di fronte alle tribolazioni che tentano di minarne la forza luminosa. Come scrive l’apostolo Paolo: «Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3a-4). Per dirla con un’immagine musicale, la pazienza è come il cantus firmus attorno al quale si sviluppa il contrappunto costituito dagli eventi della vita, incluse le cacofonie rappresentate da esperienze negative, cattiverie o sofferenze di ogni genere, spesso provocate dall’indurimento del cuore umano.Anche allora il cantus firmus della pazienza contribuisce a mantenere accesa la luce della speranza, sua compagna inseparabile.

Sorelle e fratelli carissimi, anche oggi eventi negativi e tenebrosi funestano la terra: disuguaglianze, ingiustizie, violenze di ogni genere, oppressioni, guerre, devastazioni e morte. Il prenderne atto, tuttavia, non deve affievolire o smorzare la speranza in un futuro migliore, al contrario deve rafforzare il nostro impegno a vivere nel mondo come tracce luminose che si adoperino nel contrastare con pazienza e determinazione ogni forma di male, sorretti dalla fiducia che Dio è con noi e sostiene e illumina i nostri passi sulla via del bene.

Assieme a san Paolo, interceda per noi san Benedetto, uomo che ha fatto suo lo sguardo misericordioso di Dio sul mondo, sguardo che ci apre alla speranza. E così sia.

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