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«ED IO CHE SONO?»
Ab. Donato Ogliari osb

Già pubblicato su Il Gazzettino di Noci, anno 2014

Nel mese tradizionalmente dedicato alla memoria dei defunti non è per nulla ozioso porci quelle domande che Giacomo Leopardi, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, aveva messo sulla bocca di un pastore, assurto a paradigma di ogni uomo: «Dimmi, o luna: a che vale/ Al pastor la sua vita,/ La vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ Questo vagar mio breve…? (…) ed io che sono?». Come il poeta-filosofo di Recanati, anche un inquieto ricercatore di senso del nostro tempo, nonché un grande assetato di felicità, il cantante rock Freddie Mercury, non sfuggiva a questi quesiti. In The show must go on, inciso qualche mese prima della sua morte, si chiedeva: «Does anybody know what we are living for? – Qualcuno sa per quale motivo viviamo?».

Ogni essere umano, prima o poi, finisce col porsi queste domande e chiedersi quale sia il senso della propria vita, perché essa sia segnata dalla transitorietà (il leopardiano “vagar breve”) e dalla precarietà (“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”: G. Ungaretti). Soprattutto, non c’è nessuno che non desideri trovare un significato profondo a quell’innato anelito alla felicità che alberga nel nostro cuore e che ci fa aspirare ad una vita non solo economicamente sicura e fisicamente sana, ma anche psichicamente e spiritualmente realizzata. Il fatto è che tale aspirazione contrasta con le limitazioni imposte dalla vita stessa, limitazioni di fronte alle quali anche la nostra libertà – che non è mai assoluta! – rimane spesso impotente. Infatti, anche alle attese e alle speranze più belle non corrisponde sempre il compimento desiderato: gli affetti più cari o le relazioni su cui si fa affidamento possono da un momento all’altro incrinarsi, inasprirsi o addirittura spezzarsi; le sicurezze acquisite (un lavoro onesto, gratificante e una vita dignitosa) possono improvvisamente vacillare; problemi giudicati facilmente risolubili possono, di punto in bianco, ingarbugliarsi e rimanere irrisolti; una serenità conquistata a fatica può scontrarsi con un’esperienza dolorosa che la mette inaspettatamente a soqquadro; e via di questo passo. Di fronte a simili prove, molti cedono ad un rassegnato pessimismo, allo smarrimento o alla disperazione più cupa, e tutto ciò che di sano, bello e positivo era stato sperimentato e vissuto in precedenza finisce con l’essere assorbito nella nebbia di tanti “perché” amari e ostili.

Pur non sfuggendo alle vicissitudini della vita, il “credente” – se è veramente tale – non potrà mai cadere nella trappola della disperazione. In virtù della fede e della speranza cristiane che lo sorreggono, egli non si sentirà mai ostaggio di un vicolo cieco che gli sbarra irrimediabilmente la strada del futuro, ma troverà sempre un motivo per lottare e andare avanti. Anche nelle avversità, egli non smetterà di credere sperando e di sperare credendo in quel Dio che lo sorregge: «Se egli cade, non rimane a terra, perché il Signore sostiene la sua mano» (Salmo 37,24). In altre parole, il cristiano crede che tutto ciò che avviene in lui e attorno a lui – anche gli sbagli suoi o altrui – concorra misteriosamente alla realizzazione di un disegno di Amore infinitamente più grande di lui e delle sue attese, delle sue gioie e delle sue pene. Egli crede, cioè, che tutto sia sospeso all’Amore di Dio, che ha l’ultima parola, e che il senso della vita terrena e della sua realizzazione consista nel non perdere la fiducia e nel continuare a corrispondere a questo Amore, sempre, nelle vicende gioiose come in quelle tristi.

La nostra fede ci dice che anche un albero o un fiore corrispondono all’Amore di Dio. Lo fanno essendo quello per cui sono stati creati. Ogni realtà creata, infatti, dà gloria a Dio – ossia, acconsente al suo Amore creativo – con l’essere fedele a quell’identità impressa nella sua natura, animale, vegetale o minerale che sia. Solo l’uomo è in grado di corrispondere all’Amore di Dio attraverso l’esercizio della sua libertà e con l’apporto della sua volontaria collaborazione, soprattutto mediante la sua capacità di amare. È in questo acconsentimento che risiede il segreto di un’esistenza realizzata e felice: il fatto di poter e voler amare lo rende capace di collaborare coscientemente con il disegno di Dio, il quale vuole che noi ci impegniamo a rendere più abitabile, pacifico e bello il nostro mondo.

A tal proposito, vorrei concludere con una citazione di Thomas Merton, un grande monaco del secolo scorso, che ben sintetizza quanto siamo andati dicendo fin qui.

«La nostra vocazione – afferma – non è semplicemente quella di essere, ma di collaborare con Dio a creare la nostra stessa vita, la nostra identità, il nostro destino. Siamo esseri liberi e figli di Dio. Questo significa che non dobbiamo esistere passivamente, ma, scegliendo la verità, dobbiamo partecipare attivamente alla Sua libertà creativa per la nostra vita e per la vita degli altri. Anzi, per essere più precisi, siamo anche chiamati a lavorare con Dio nel creare la verità della nostra identità. Possiamo sfuggire questa responsabilità giocando a mascherarci; e questo ci soddisfa, perché a volte può sembrarci un modo di vivere libero e creativo. È cosa facile che sembra accontentare tutti. Ma a lungo andare questo costa e fa soffrire notevolmente, Operare la nostra stessa identità in Dio (…) richiede ad ogni momento un attento esame della realtà, una grande fedeltà a Dio, al Suo oscuro rivelarsi nel mistero di ogni nuova situazione. Non conosciamo con certezza né in anticipo quale sarà il risultato di questo lavoro. (…) Ma se io non desidero raggiungere questa mia identità, se non mi metto all’opera per trovarla insieme a Lui e in Lui, quest’opera non verrà mai compiuta. Il modo di farlo è un segreto che posso imparare da Lui solo, e da nessun altro. Non vi è modo di conoscere questo segreto se non per mezzo della fede. (…)

Non accettare, non amare e non adempiere la volontà di Dio significa rifiutare la pienezza della mia esistenza. E se non divento ciò che dovrei essere, ma rimango sempre ciò che non sono, passerò l’eternità a contraddire me stesso, perché sarò contemporaneamente qualcosa e nulla (…). Il segreto della mia identità si nasconde nell’amore e nella misericordia di Dio. (…). Non posso quindi sperare di trovare me stesso se non in Lui. In ultima analisi il solo mezzo per essere me stesso è di identificarmi con Lui, perché in Lui si nascondono la ragione e la realizzazione piena della mia esistenza. Quindi la mia esistenza, la mia pace e la mia felicità dipendono da un solo problema: quello di scoprire me stesso scoprendo Dio. Se lo trovo, troverò me stesso, e se trovo il mio vero io, troverò Lui».

Allora, anche la domanda: «Ed io che sono?» troverà una risposta!