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SOLITUDINE E SOLITUDINI
Ab. Donato Ogliari osb

Già pubblicato su Il Gazzettino di Noci, marzo 2014

Non occorre scomodare i sociologi o gli antropologi della cultura per comprendere che l’accesso sempre più massiccio ai moderni strumenti digitali – dal computer al tablet allo smartphone – non ha necessariamente accresciuto la “qualità” della comunicazione. Certamente quest’ultima è divenuta più veloce e frequente, ma, assieme alla rapidità e alla moltiplicazione dei contatti, si ha la netta impressione che siano stati favoriti anche una crescente superficialità e un più marcato individualismo. I collegamenti stabiliti “virtualmente” tramite gli SMS o i social networks, non solo hanno “vaporizzato” i rapporti umani, ma hanno anche messo in luce come alla base di questa comunicazione “ad oltranza” vi siano – soprattutto nelle generazioni dei cosiddetti “nativi digitali” – una larvata insofferenza di fronte all’esperienza della solitudine e il disagio, ad essa intimamente connesso, di doversi misurare con se stessi. Eppure, al pari del naturale bisogno di stabilire relazioni con gli altri, anche la solitudine rappresenta un aspetto fondamentale della nostra esistenza, aspetto che non fa a pugni – come si potrebbe credere – con la ricerca di socializzazione, ma le dà piuttosto uno spessore e una profondità. Il respingere la dimensione della solitudine significherebbe dunque porre un ostacolo alla piena realizzazione del nostro percorso umano e spirituale.

Di fatto, l’esperienza della solitudine fa parte della nostra quotidianità ed è una realtà che, in un modo o nell’altro, ci accompagnerà per tutta la vita, fino alla morte, che della solitudine è l’attestazione suprema. Quando si muore, infatti, si muore da soli. Ora, la forma più appariscente della solitudine è senza dubbio quella fisica. Si tratta di una solitudine “esterna”, spesso non voluta e non cercata, come quella derivante dalla condizione vedovile o provocata da un matrimonio finito male. Ma vi sono anche solitudini riconducibili ad una vera e propria emarginazione dei più deboli messa in atto dalla nostra civiltà consumistica, alla quale sta più a cuore il profitto che non la dignità dell’uomo, soprattutto se quest’ultimo non è più produttivo e non contribuisce in alcun modo alla crescita del PIL! Queste solitudini sono tante quante ne genera – per utilizzare un’espressione di papa Francesco – la “cultura dello scarto”: dai vecchi ai diversamente abili, dai disoccupati agli extracomunitari, per non parlare dei carcerati, dei tossicodipendenti, ecc. Ovviamente la solitudine fisica o esterna, di qualsiasi genere essa sia, ha delle inevitabili ripercussioni in chi la vive, a seconda del contesto nel quale si trova a vivere e della capacità di reagirvi. Non dimentichiamo, però, che vi è anche una solitudine fisica sommamente desiderata. È quella anelata e ricercata come spazio in cui gustare la calma e la contemplazione, nel quale è possibile raccogliersi, concentrarsi, riposarsi nel corpo ed elevarsi nello spirito. «Le grandi elevazioni dell’anima non sono possibili se non nella solitudine e nel silenzio» (Arturo Graf).

Accanto a quella “esterna” vi è poi una solitudine più propriamente “interna”, che potremmo definire meta-fisica. Essa si annida, per così dire, nelle profondità dell’animo umano, indipendentemente dal fatto che ci si trovi fisicamente soli o in compagnia. Nessuno può sfuggire a questa solitudine, anche se molti vi tentano rifugiandosi in interminabili chats su internet o affidandosi all’auricolare dell’ipod o alla tastierina del cellulare sempre a portata di polpastrello. Eppure, proprio perché nasce dal di dentro, questa forma di solitudine – che spesso si manifesta come un’indefinibile nostalgia o melanconia – non può essere evitata. Ciascun essere umano la porta con sé, come una sorta di abisso pronto a riaprirsi al centro del suo essere, sia quando si muove negli ambienti consueti della sua quotidianità (famiglia, amici, colleghi di lavoro, membri della comunità parrocchiale, dell’associazione, del movimento o del partito) sia quando è immerso nella folla (soprattutto nei cosiddetti “non luoghi” come le stazioni, gli aeroporti, i centri commerciali). Che si incrocino volti noti o volti sconosciuti, questa solitudine interna è sempre là, e, quando meno te l’aspetti, fa affiorare in superficie le domande di senso su quel che siamo e viviamo, rammentandoci soprattutto quelle decisioni da prendere e quelle scelte da compiere – dalle più piccole alle più grandi – che non possiamo demandare a nessuno. Se tale solitudine interna non è ignorata, essa si trasforma in un’occasione propizia di chiarificazione e finisce col diventarci amica, per non dire necessaria al soddisfacimento di quel bisogno di sentirci riconfermati al cuore della nostra umanità.

A ben vedere, dunque, l’esistenza umana non si realizza solamente nell’intessere relazioni personali il più possibile significative, sia a livello familiare che sociale, ma anche nella capacità di vivere la dimensione della solitudine, accolta come spazio nel quale forgiare, vagliare e monitorare tali relazioni. La fecondità della solitudine consiste proprio nell’aiutarci a non cadere vittime della superficialità e a resistere alla tentazione di lasciarci risucchiare dalle paludi dell’apparenza e dell’effimero che ci appiattiscono sul pensiero dominante e su comportamenti omologanti, falsi e, talora, ridicoli. «Là dove la solitudine finisce – scriveva Friedrich Nietzsche –, comincia il mercato; e dove il mercato comincia, là comincia anche il fracasso dei grandi commedianti e il ronzio di mosche velenose». Se l’accogliamo e la viviamo positivamente, la solitudine interiore non costituirà dunque un peso di cui sbarazzarsi quanto prima, ma la soglia che ci introduce alla saggezza e alla verità di noi stessi, la palestra nella quale educare i nostri desideri, purificare i nostri propositi e risanare le nostre ferite; lo spazio nel quale conoscerci meglio per poi partecipare con cognizione di causa e senso di responsabilità all’edificazione giusta e pacifica della “città terrena”. Ecco perché – e lo ribadiamo – la solitudine ci appartiene e va vissuta al pari del nostro bisogno di relazione, di condivisione e di amore, perché l’autenticità di questi ultimi dipende dalla capacità di assumerne le ragioni profonde nell’intimo santuario della nostra coscienza.

Infine, la solitudine è di fondamentale importanza anche nel campo più prettamente spirituale. Esperita nella luce della fede, essa diventa per il credente lo spazio invisibile nel quale gli è dato di incontrare Dio. Come diceva san Giovanni Paolo II, è quella «solitudine abitata dalla presenza del Signore, che ci mette in contatto, nella luce dello Spirito, con il Padre». Una solitudine, dunque, che ci permette di cogliere l’azione dello Spirito che opera nelle profondità del nostro cuore, che ci mette in discussione e ci stana dal torpore delle nostre pseudo-sicurezze. Ma, soprattutto, è una solitudine che apre all’incontro autentico con il Dio-Amore, incontro nel quale il credente rinnova la gioia di sentirsi da Lui amato e sostenuto, e dal quale attinge luce e forza per testimoniare al mondo la vita buona del Vangelo.