Abbazia di San Paolo fuori le mura
Apiario monastico
Da alcuni anni l’Abbazia di San Paolo fuori le Mura ha intrapreso l’attività apiaria, grazie al supporto della Federazione Apicoltori Italiani.
Come già accade da qualche anno, anche a Roma esistono delle iniziative di ripopolamento delle api che consentono di allestire delle arnie in prossimità delle aree verdi.
Emblematica è la conduzione di un alveare sulle terrazze di palazzo della Valle, in pieno centro storico, e sede di Confagricoltura, ormai attivo da alcuni anni, che viene portato avanti anche grazie al laboratorio di smielatura dell’Abbazia di San Paolo.
Roma si pone al passo con l’esperienza di altre città europee e mondiali come Berlino, Parigi, Londra e New York per creare un ambiente naturale integrato con le esigenze antropiche.
Come indicato nella delibera 91/2019 Roma Capitale si approva la “Apicoltura Urbana” dedicata alla protezione e alla tutela degli insetti, su proposta del consigliere Diaco.

La tradizione monastica
Con la caduta dell’impero romano, l’apicoltura praticata dai ricchi proprietari cessò e nel medioevo l’attività apistica fu praticata prevalentemente dai monaci nei conventi il cui scopo era ricavare il miele, prezioso per l’alimentazione e per la cera che serviva per il culto.
Dopo l’anno mille, col sorgere dei liberi Comuni e delle fiorenti Repubbliche, l’apicoltura prese nuova vita divenendo un’attività redditizia ed apprezzata da molti.
La cera serviva per l’illuminazione, per gli stampi (tavolette di cera) e veniva utilizzata a scopo artigianale (falegnameria, calzoleria), medicinale (impiastri, unguenti) e artistico (pittura su vetro, oggetti sacri).
Il polline e la covata erano fonti di proteine.


Il miele, apprezzato come alimento corroborante, fino al 1400 fu l’unico edulcorante (utilizzato ad esempio per il panpepato, il vino e la birra) e fino al XIX sec. rimase più economico dello zucchero.
L’unico documento politico, rinvenuto nel millennio che va dal V al XV secolo, inerente al miele è il Capitolare de Villis emanato nel 759 da Carlo Magno secondo il quale chiunque avesse un podere doveva tenere anche api e preparare miele e idromele; chi fosse stato sorpreso a rubare miele coltivato era punibile con multe di varie entità, chi invece avesse trovato un favo abbandonato ne diventava proprietario.
Il Medioevo considerava il miele un bene prezioso, con pene e sanzioni per chi lo rubava o tralasciava di allevare le api di un proprio podere.
Carlo Magno solo imponeva che ogni proprietario di campi doveva possedere almeno un alveare, ma lo stesso re ne voleva un gran numero nei suoi poderi e premiava i più diligenti apicoltori: infatti nei giardini della sua stessa reggia venivano allevate le api.
La nostra arnia da nomadismo
L’arnia Dadant nasce come modifica della Langstroth e presenta quindi molti lati in comune con quest’ultima L’arnia Langstroth è stata ideato dal reverendo Lorenzo L. Langstroth nel 1851 in America, successivamente modificato da Charles Dadant nel 1859 e da Blatt Dal modello Dadant-Blatt venne standardizzata l’arnia italiana nel 1932, l’arnia Italica-Carlini

La nostra arnia a cuore

Alessandro Tonelli che la inventò nel 1901 e la presentò nel 1911 alle esposizioni di Torino, Roma e Firenze in occasione del ”Cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia”. Viene normalmente chiamata “arnia cuoriforme” perché l’inventore ha voluto ricreare un vestito per i favi che le api fabbricano spontaneamente in natura quando non sono costrette da noi a riempire i telaini squadrati.